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venerdì 27 maggio 2011

I PRIGIONIERI: PECCATORI CONTRO LA PATRIA?

 Massimo Coltrinari

La prigionia di guerra costituisce un'esperienza che ha toccato, all'indomani della prima e della seconda guerra mondiale , oltre due milioni di soldati italiani. Per ragioni complesse, recondite  e spesso inconfessabili, di questa  esperienza di massa ci si è voluti molto spesso dimenticare: All'indomani della vittoria di Vittorio Veneto, nel tripudio della stessa, di tutto si parlò meno degli oltre 600.000 soldati italiani (di cui 100.000 morti) prigionieri.
Nella monumentale  bibliografia dedicata al primo conflitto  mondiale, da parte non solo italiana, le opere inerenti completamente alla prigionia si contano sulla punta delle dita. Si possono citare, ad esempio, di Carlo Emilio Gadda "Giornale di Guerra e di Prigionia" (Einaudi Torino, 1965) e "Taccuino di Caporetto: Dia di Guerra e Prigionia" (Garzanti, Milano 1991). Pubblicazioni sicuramente dovute alla fama dell'Autore, più che ad un reale interesse per la materia.
La stessa Relazione ufficiale dello Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio Storico, dedica alla prigionia pagine interessanti, ma non approfondite. Le altre opere, tutte edite prima del 1940, sono in tino minore, dimesso, quasi che i prigionieri non avessero il coraggio o l'ardire di raccontare le loro vicende e disavventure.
Occorre rilevare che i fascismo non aveva alcuna interesse a parlare di vicende e situazioni che andavano contro la sua retorica ufficiale.
Stesso atteggiamento all'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale. In pieno disastro morale e materiale, nella problematica  e ferita società italiana della metà degli anni quaranta, pochi avevano interesse e voglia di interessarsi dei problemi e delle vicende della prigionia militare italiana: In più vi era l'orrore della scoperta dell'altra tragedia consimile, quella dell'Internamento in Germania, inserita in quell'enorme  vergogna che è l'Olocausto e lo sterminio di massa. Anche nel secondo dopoguerra, quindi, in fretta si cercò di dimenticare le vicende della prigionia.
Eppure, la vicenda della prigionia interessa oltre due milioni di soldati italiani, una massa di uomini che dovrebbero attirare l'interesse di studiosi  e storici. A fronte  d ciò occorre rilevare che nei paesi anglosassoni e in Francia il prigioniero di guerra è tenuto nella massima considerazione. In pratica esso è considerato un soldato sfortunato, che però nella difficile vita di cattività ha contribuito a servire il suo Paese. Basti ricordare il film "Il ponte sul fiume Kway" per comprendere questo assioma.
In Italia, invece, nulla di tutto questo. L'origine di tale atteggiamento può essere trovata nella formazione di uno stato Unitario Italiano.
Chiamato questo Sttao alla difficilissima prova della prima guerra mondiale, Che è bene dirlo fino alla vigilia di Caporetto si hanno oltre 70.000 disertori, molte difficoltà di amalgama e di senso civico vennero a nudo. Una di queste era la profonda sfiducia (per lo più ingiustificata) che i vertici politico-militari ed i comandanti nutrivano verso i loro soldati. Nel dover affrontare le dure prove del combattimento, questi comandanti  erano ossessionati dall'idea che i soldati, di fronte al pericolo, disertassero o si arrendessero troppo facilmente. Nell'accezione generale dei nostri comandanti della prima guerra mondiale, i prigionieri erano considerati dei vili, dei pessimi soldati, quasi assimilabili ai disertori.
Nonostante azioni di alto valore, si ebbero 600.000 prigionieri di cui almeno 300.000 per effetto della ritirata al Piave: Fu una prigionia  dura, ma nell'alveo delle norme internazionali allora in vigore, marcata a fondo da una fame crescente, ciò non fu voluto dagli austro-ungarici detentori dei nostri prigionieri, ma dalla carenza dei rifornimenti.
La fame , che fu patita in misura uguale dalla stessa popolazione austriaca, fu, per i soldati prigionieri, disperata. Il risultato di questa  situazione fu l'altissima mortalità: oltre 100.000 uomini morirono dietro i reticolati.
E' una cifra, come tutte quelle riferite  alla prigionia della prima guerra  mondiale, tenuta per anni accuratamente nascosta. Questa  cifra non entra nemmeno nel  calcolo generale delle eprdite italiane del conflitto. Infatti tutte le fonti portarono solo il numero dei morti italiani (oltre 600.000) avuti in combattimento e per cause di combattimento.
Per sottolineare il diverso approccio, rispetto a noi italiani,  che gli anglo-francesi avevano verso i prigionieri, occorre dire che le Autorità sia di Francia che di Gran Bretagna organizzavano un regolare invio di treni carichi di viveri per i loro  prigionieri in Germania. Il risultato fu che su un totale di 600.000 prigionieri anglo-francesi 8numero uguale a quello degli italiani) i loro morti furono "solo" 20.000.
Le Autorità italiane, sia politiche che militari, rifiutarono categoricamente di organizzare l'invio di viveri, attraverso la Svizzera, per i nostri prigionieri: Si era quasi  soddisfatti che il nemico lasciasse morire di fame i nostri soldati: che tale voce si spargesse tra le trincee, affinchè tutti i combattenti si convincessero che era poco conveniente arrendersi o darsi prigionieri.
I risultati, come detto, furono 100.000 morti (un prigioniero su sei), mentre la mortalità fu minore fra gli ufficiali (500 su 19.500), in quanto potevano ricevere pacchi dalle famiglie e non erano obbligati al lavoro.
Un'altra considerazione: 600.000 furono gli internati militari italiani nel periodo'43 - '45, e tutti conosciamo le tragiche e inumane  condizioni in cui furono tenuti. Ebbene tra loro si ebbero in totale circa 50.000 morti, ma molti di meno, di quelli della prima guerra mondiale.
Tutto questo era causato dalla convinzione  delle nostre Autorità che la prigionia fosse una vergogna, un disonore, una viltà, se non un vero e proprio tradimento.
Ed il vate, colui che fu il primo propagandista della grande guerra, quel Gabriele D'Annunzio che nel bene e nel male, tanto incise nel nostro tessuto sociale, chiamava i prigionieri, condannandoli al disprezzo, "i soldati italiani sventurati e svergognati", una genia "che aveva peccato contro la Patria".
Questa idea si è tanto bene radicata nel nostro paese, che è ben facile comprendere il disinteresse con cui furono trattati i prigionieri italiani della prima e della seconda guerra mondiale.
Non può sorprendere pertanto la scarsezza degli studi  sulla prigionia e sulle vicende , spesso drammatiche, ad essa collegate . del resto tutto questo è stato alimentato dall'ultima "scelta" dei protagonisti: il prigioniero non vuole raccontare la sua esperienza.
Quale udienza ed ascolto, peraltro, può avere chi era considerato un peccatore contro la Patria.
Con questa noto vogliamo avviare una serie  di articoli sul tema della prigionia, andando un po’ contro  corrente nella speranza di dare un contributo per invertire la tendenza in atto.