Lo studio della prigionia e dell’internamento come mezzo per diminuire la violenza, la violenza bellica e rafforzare la pace e la sicurezza, ovvero individuare la struttura e articolazioni della prigionia e l’internamento è un concetto che si è affermato nell’ambito della attività della Associazione Nazionale reduci dalla Prigionia a partire dal convegno di Caserta n
Gli
scenari sia europei che mondiali, dal 1989, con la caduta del muro di Berlino,
hanno innescato dinamiche che hanno portato il nostro Paese al centro di
tensioni e conflitti sia di medio che di alto spessore. L’Italia con le sue
Forze Armate ha svolto un ruolo non secondario nelle operazioni di “peace
keeping” e “peace renfourcement” ( Libano, Mozzambico, Somalia, Albania,
Bosnia, Kossovo); ora, dopo l’11 settembre 2001, anche in operazioni di
medio-alta conflittualità in Afganistan e in Irak. Lo scopo di queste missioni
è quello di abbassare il livello della violenza bellica, cercando di priteggere
ed aiutare quzello che, la storia lo insegna, sono le prime vittime, cioè i non
combattenti, i cosidetti “civili”, che vedono la loro sicurezza, materiale e
morale, messa in pericolo. Questi interventi, quindi, costituiscono contributi
essenziali al ripristino della sicurezza e al rafforzamento della pace tra
comunità, etnie e stati. Ora questa azione, per essere efficaci, deve avere
continui contributi, adattamenti, studi, al fine di affrontare situazioni
conflittuali sempre più articolate e complesse. Se non si riesce a fare questo,
si partecipa in in conflitto con mezzi ( intesi come concezioni, dottrina,
regole di ingaggio, intelligence, e conoscenza di amici, fiancheggiatori avversari e nemici) inadeguati. E dato che
non si può sbagliare in questa materia, le conseguenze sono pesanti. Come la
strage di Nassyrya stà a dimostrare.
Uno dei mezzi per avere strumenti adeguati in
operazioni in Area e Fuori Area è quello di conoscere le dinamiche della
violenza, sia essa bellica o di altra natura. Nelle parti in conflitto, la
spirale della violenza spesso conduce a reazioni e ritorzioni, spesso volute da
chi compie un atto violente, che si traduce in rappresaglie, restrizioni,
limitazioni di movimento per arrivare alla privazione della libertà in
individue cosidetti o consiuderati “sospetti”, ovvero alla attuazione della prigionia
militare e dell’internamento. Con questo approccio si apre il tema, che si
credeva fino al 1989 relegato solo alla Storia, dell’internamento e della
prigionia come protagonisti dei conflitti. Due esempi: nel conflitto tra serbi
croati e bosniaci nel 1991 si sono aperti, con scientificità, i campi di
concentramento, in cui si avviavano e si detenevano i “sospetti”, con il solito
corollario di violenze indivurali, crudeltà ed efferatezze; nell’attuale
conflitto in Irak e in Afganistan, vi è il “bubbone” dei Talebani detenutti a
Gantanamo Bey, sospettati di essere terroristi. Anche qui detenzione e
trattamento che è tutto da verificare. In entrambi i conflitti l’Italia è
intervenuta con le sue Forze Armate per “operazioni di pace”. E’ chiaro che
l’Italia non è coinvolta direttamente in questi fenomeni, ma è anche chiaro che
non vi è a monte alcuna conoscenza approfondita su come affrontare con
linearità e chiarezza tali fenomeni. Non si vorrebbe che, in un futuro più o
meno lontano i nostri soldati impegnati a riportare la sicurezza e la pace,
fossero invischiati in storie di “ detenzione di sospetti” ed altro, con il
rischio di essere accusati di crimini e di essere dalla parte del carnefice.
Avvisaglie di questi pericoli, che vanno contro tutte le buone volontà, si sono
avuti nella operazione in Somalia.
Occorre
quindi uno studio a vasto raggio che permetta di affrontare queste operazioni,
questi impegni con mezzi giuridici moderni, con una cultare tale che permetta
di evitare errori, e scivoloni, che permetta di esercitare la violenza, in
quando non si può fare a meno in circostanze come quelle dell’impiego in un
conflitto, nell’ambito non solo della legge nazionale e internazionale, ma
anche nei canoni della legge della coscienza e delle genti. E questo non è
facile.