Traduttore

lunedì 22 febbraio 2021

Prima Guerra Mondiale. Campo di concentramento per prigionieri di guerra Drosckwybuk

 

Con circa 6000 prigionieri italiani i quali vanno in giro mendicando. 


Questo campo non è riportato da "Bilder aus Oesterreichisch-ungarischen  Kriegsgefangene- Lagern   Vue des camps des prisonniers de guerre en Austriche- Hongrie. Vedute di campi dei prigionieri di guerra in Austria-Ungheria. Herausgegeben von den Fursorge- Komitees des Oesterreichisch und des Ungarischen Roten Kreuzes fur Kriegsgefanger."


Citato in Relazioni preliminari sui risultati dell’inchiesta fino al 31 marzo 1919, Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti e delle norme di guerra e sul trattamento dei prigionieri di guerra, D.L. 15 novembre 1918, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1919, pag. 53.  (Fonte Camillo Pavan, I Prigionieri italiano dopo Caporetto).


Si ricercano notizie sul campo di prigionieri di guerra di Drosckwybuk ( Prima guerra mondiale). 

 (ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org)


giovedì 18 febbraio 2021

La Battaglia di Adua e l'onore Italiano. Il duello del Conte di Torino

 


Come se tutto questo non bastasse, alla mala accoglienza si aggiunge il dileggio:

Le “Figarò” nell’estate del 1899 pubblica, in merito al comportamento dei prigionieri in mano Etiope una corrispondenza che suscitò molte polemiche. Questa era del seguente tenore

Adis Abeba 21 aprile 1887. … Sono costretto a dire che io sono non già indignato ma semplicemente stomacato di ciò che apprendo ogni giorno sul conto loro (de i prigionieri). Per rispetto verso una nazione colla quale abbiamo avuto un’ora di amicizia (1859) io tacerei se gli Italiani non avessero tenuto a nostro riguardo la condotta più biasimevole. Non hanno confessato essi medesimi che se fossero entrati vittoriosi in Addis Abeba non avrebbero dato quartiere a nessun Francese, neppure ai commercianti…? Essi sono venuti da prigionieri alla capitale ma sembra che non se ne diano per intesi; alcuni Ufficiali non hanno esitato a prendere parte alle feste anniversarie della Battaglia di Adua; altri portavano ai polsini in forma di bottoni monete con l’effige di Menelik. Non è l’Albertone stesso che facendo dei brindisi alla salute del grande Imperatore, si voltò verso uno dei nostri compatrioti per dirgli “Vi pare che siamo cortesi? ” a cui il Francese rispose: “Signore io non ho mai veduto un Francese bere alla salute dell’Imperatore Guglielmo…”

Appena questa corrispondenza fu letta in Italia, divamparono le polemiche. Il Generale Albertone, direttamente chiamato in causa smentì con un intervento sulla “Tribuna”. In questa replica Albertone spiegò che dopo la firma del trattato di pace tra l’Italia e l’Abissinia, alcuni ufficiali, ormai liberi ed in attesa di rimpatrio, fra i quali l’Albertone furono invitati dal Negus ad un banchetto. Al termine del quale l’Albertone fece un brindisi per ricordare a tutti la ormai ristabilita pace tra i due popoli. L’Albertone conclude il suo articolo con la seguente nota:

“Ripugnami il credere che la lettera pubblicata dal “Figaro” sia del Principe di Orleans. Essa costituisce un atto che non è né da gentiluomo né da galantuomo.

Gli Ufficiali reduci dalla prigionia, a Firenze, si riunirono in un Comitato e mandarono lettere di protesta. Altre lettere di protesta furono inviate al “Figarò”. Entro nella faccenda anche Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta, conte di Torino. In breve il Principe d’Orleans si trovò sfidato, secondo l’uso del tempo sia dal Conte di Torino che dall’Albertone. Ebbe la precedenza Vittorio Emanuele e la stampa nazionale sottolineò con soddisfazione che un principe del sangue si esponesse per difendere l’onore di tutto l’Esercito.

Il duello si tenne il 15 agosto a Veneresson. Fu un duello accanito ed alla fine e l’Orleans fu ferito prima alla spalla poi all’addome. I medici posero fine allo scontro e i due avversari si strinsero la mano.

“L’impressione a Parigi fu immensa. La stampa francese fu però quasi unanime a dedicare parole assai benevoli al valoroso Conte di Torino, mentre il Daily  Chronicle fece giustamente  rilevare fu doppiamente coraggioso perché sapeva di non affrontare soltanto un nemico ma di assumere una responsabilità enorme di fronte all’Italia”[1]

Al suo ritorno a Torino il Conte fu salutato e festeggiato. Vi partecipò anche Giosuè Carducci con un breve scritto. Sulle vicende dei 1900 /2000 prigionieri italiani  di Adua, ed il fatto che non si sia riusciti ancora a stabilire l’esatto numero dei prigionieri italiani in mano al Negus[2],  calerà negli anni a venire il silenzio, nemmeno rotto dai fasti ed imprese della Guerra d’Etiopia, calerà l’omertà dei politici, dei militari, dei reduci e il silenzio stampa, ciascuno per proprie ragioni. La principale rimane quella che i prigionieri di guerra sono da sempre i capri espiatori e i testimoni imbarazzanti degli errori dei capi, scaricati su di loro con l’accusa di codardia.



[1] Bellavita E., La Battaglia di Adua, cit.,

[2] Uno dei motivi, oltre la scarsa attenzione data dalle Autorità militare sta anche nel fatto che Il gen. Baldissera, successo a metà maggio 1896 a Baratieri, cadute le trattative ottiene, con la minaccia delle armi, la liberazione di 120 prigionieri rimasti nel Tigrè.

 

giovedì 11 febbraio 2021

La Battaglia di Adua. Il ritorno dei prigionieri in Italia

 


Il primo scaglione di prigionieri giunse in Italia nel febbraio 1897 composto da 7 ufficiali e 208 militari di truppa- Il grosso dei prigionieri italiani rimpatrierà tra l’autunno del 1896 e l’aprile 1897, dai porti di Massaua e Zeila, raggiunti questa volta a cavallo e verrà accolto con gelo, se non ostilità, dalle autorità e dalle cittadinanze in Eritrea e in Patria. Tedone[1] (op. cit.) così ricorda il primo impatto degli ex prigionieri, nel porto di Massaua, accolti con diffidenza e vergogna dalle autorità e dai civili: Molto popolo bianco e nero era schierato sulla banchina al nostro arrivo, ma non una parola, non un saluto da parte della folla che in breve si dirada lenta e silenziosa com’era venuta.”

Anche GOJ (op.cit.) sottolinea l’accoglienza glaciale, a differenza da quella ricevuta a Zeila dagli inglesi e si preoccupa delle voci di processi ai reduci, in Italia!” 

Pontano [2] aggiungerà: “Cominciavamo a capire, dopo aver scorso, passati tanti mesi, alcuni giornali italiani, di dover scontare i grattacapi procurati agli uomini di governo con la nostra prigionia: avevamo il torto di non essere morti tutti /…/ Così finì la prigionia in Abissinia di cui, dopo tanti anni, posso dire che non fu il periodo più triste della mia vita.”

L’accoglienza in Italia a Napoli sarà vessatoria e punitiva: lo sbarco avverrà di notte, coi carabinieri che tengono lontana la popolazione e col trasporto al galoppo in caserma nei carri dell’artiglieria. Seguiranno lunghi interrogatori in caserma ma non ci saranno processi, ma saranno defraudati di parte del soldo e dei souvenirs portati dallo Scioa e diffidati di parlare coi giornalisti e tanto meno della battaglia di Adua e della prigionia.[3].

Così i prigionieri di Adua si ammutolirono come quelli, più tardi, di Caporetto e gli ex IMI dei Lager: le trame della storia si ripetono!

Solo sei reduci avranno il coraggio di testimoniare pubblicamente, anche in sordina e anche dopo decenni: il medico Nicola D’Amato[4], il sottufficiale Francesco Frisina[5], il maggiore Giovanni Gamerra[6], il caporale Luigi Goj[7], il tenente Gherardo Pontano[8] e il sergente Giovanni Tedone[9]  Non se ne ricordano altri,



[1] Tedone G., “Angerà”, Milano, Giordano, 1964 (1a ed.1915).

[2] Pontano G., Ventitré anni di vita africana”, Torino, SATET, 1943

[3] Frisina F., “L’Italia in Abissinia e nel Sudan”, Alessandria D’Egitto, Imprimérie Nouvelle, 1919)

[4] D’Amato N., “Da Adua a Addis Abeba. Ricordi di un prigioniero”, Salerno, Volpe, 1896

[5] Frisina F., “L’Italia in Abissinia e nel Sudan”, Alessandria D’Egitto, Imprimérie Nouvelle, 1919)

[6] Gamerra G., Fra gli ascari d’Italia”, Bologna, Zanichelli, 1899

[7] Goj L.,”Adua e prigionia fra i Galla”, Milano, Scuola tip. Salesiana, Milano, 1901

[8] Pontano G., Ventitré anni di vita africana”, Torino, SATET, 1943

[9] Tedone G., “Angerà”, Milano, Giordano, 1964 (1a ed.1915).

giovedì 4 febbraio 2021

La Battaglia di Adua ed i prigionieri di guerra

 

Il Trattamento dei prigionieri di guerra da parte Etiope


  Ascari mutilati della mano sinistra e del piede destro da parte degli Etiopi


I primi prigionieri, stanchi e affamati, giungono a Addis Abeba il 22 maggio, dopo una marcia estenuante a piedi di un migliaio di chilometri, durata due mesi e con una cinquantina di decessi; altri prigionieri arriveranno a giugno ed altri ancora confluiranno ad Harrar a fine luglio.

In base alle dichiarazioni dei prigionieri vi furono delle versioni sul trattamento, unanime fu il confermare che la marcia dal Tigrè allo Scioa fu terribile[1] Dalle ricerche di Angelo Del Boca[2]  e di Giorgio Rochat[3]  risulta che i prigionieri italiani, sovente in quanto cristiani, furono trattati, vestiti e alimentati generosamente dal Negus, Ras, clero, soldati e, pietosamente, dalla popolazione indigena, nei limiti delle possibilità. Non pochi italiani addestrarono artigiani locali e si legarono anche sentimentalmente a donne abissine, con scene strazianti all’addio dei prigionieri. In un secondo tempo i prigionieri si amalgamarono bene con la popolazione, disponendo, specie gli ufficiali, di talleri, servi, cavalli e svaghi e spesso invitati alla tavola dal Negus! Per contro non mancarono abusi degli italiani ai danni degli ospitanti, furti, imbrogli, risse anche con coltelli… dimentichi di chi aveva persa la guerra!

Tra luglio e ottobre 1896, i prigionieri sono assistiti dalla Missione Sanitaria Russa,[4]poi giungono coi missionari i primi soccorsi in vestiario, scatolame e denaro raccolti da un Comitato Civile di nobildonne costituitosi a Roma, in mancanza di un’assistenza diretta dello Stato italiano belligerante. Poi, dopo la firma della pace, il 26 ottobre giungono i primi convogli della Croce Rossa Italiana e i sussidi portati dal Nerazzini, negoziatore della pace. Con la pace, i prigionieri sono ospiti liberi e con le tasche piene di talleri non hanno davvero di che lamentarsi,

Ricorda il marchese Salvago Raggi, Governatore dell’Eritrea nel 1907[5]:

“Si lavorò a svegliare la pietà del pubblico italiano sulla sorte dei prigionieri, i quali non vennero sistematicamente maltrattati. Passati i primi momenti dopo la battaglia e i disagi della marcia dal Tigrè allo Scioa, erano assai meglio trattati di quanto non lo siano stati i prigionieri di guerra (1915-18, n.d.r.) in Germania; parecchi stavano meglio che non a casa loro “.

Con il trattato di Pace, quindi Menelik poteva rilasciare i prigionieri. Infatti si ebbe una apposita convenzione[6] Il loro rimpatrio fu assicurato con l’accordo dell’ottobre 1896 che riconosceva il confine dell’Eritrea al fiume Belesa e Maleb, l’indipendenza dell’Abissinia da ogni ingerenza italiana rivendicata da noi con il Trattato di Uccioli del maggio 1889. Inoltre veniva pagata al Negus una somma quale rimborso per le spese di mantenimento dei prigionieri. Il rimpatrio avveniva attraverso il porto britannico di Zeila l’arrivo in questo porto per l’imbarco, avvenne tra la disattenzione delle Autorità e della Colonia bianca che della sconfitta, delle sue cause e conseguenze preferivano non parlare e nemmeno ricordare.  Fu il profilo di questo rimpatrio, assunto fin dai primi momenti, che è più doloroso della stessa prigionia.  Quanto sopra, innanzitutto, perché al fatto dell’essere caduto prigioniero era attribuito nell’ambiente militare e nell’opinione pubblica un significato molto negativo nei riguardi del comportamento dell’individuo e del reparto, che sussisterà ancora nel corso della I Guerra Mondiale, particolarmente in certi ambienti. Ciò anche in funzione di una esigenza ritenuta necessaria per assicurare un comportamento deciso e valoroso degli uomini e dei reparti nel combattimento. Dopo le accuse mosse da Baratieri di codardia dei suoi soldati, anche Di Rudinì è poco tenero coi prigionieri, preziosi ostaggi di Menelik nelle trattative di pace: “Se Menelik voleva una indennità di guerra doveva venire a prendersela di viva forza in Roma /…/ Poco importa se il mio rifiuto farà soffrire e morire i prigionieri. Il mio dovere è di rifiutare qualsiasi indennità, il dovere loro è di morire per il decoro della patria. Potrò rimborsare le spese effettivamente sostenute per il loro mantenimento, ma non di più…” [7]

“Era meglio foste morti! “: è il succo della prima accoglienza delle autorità e degli italiani ai prigionieri di Adua, sorvolando sull’impreparazione militare e psicologica di quella truppa e sugli errori e sottovalutazioni del nemico da parte del gen. Baratieri e del governo Crispi! [8]



[1] Ferrero G., Sudore e sangue, Milano, Mondadori, 1930

[2] Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari, 1975 ,

[3] Rochat G., “Il colonialismo italiano. Documenti”, Loescher, Torino, 1973

[4] Come ulteriore umiliazione,come detto,  che non fece che inasprire la vicenda presso le autorità italiane, il Negus “donò” 50 prigionieri militari italiani, quasi fossero cose o schiavi, allo zar Nicola II per la sua incoronazione, il quale poi li rigirò all’Italia. Ancor di più fu contrariato il principe ereditario Vittorio Emanuele, che proprio alla Corte Russa aveva trovato la sua sposa, Elena del Montenegro e che per ovvie ragioni ci teneva a che il prestigio suo e dell’Italia non decadesse più di tanto.

 

[5] Citato da Sommaruga G., Dovevate Morire – L’accoglienza dei Reduci di Adua (1896), in “Il II Risorgimento d’Italia”, Rivista della Associazione Nazionale Combattenti, Roma, 2002/4

[6] Convenzione relativa alla restituzione dei prigionieri di guerra Italiani

Nel nome della Santissima Trinità

Fra S.M. Menelik II Imperatore d’Etiopia e dei paesi Galla e S.E. il maggior Dottor Cesare Nerazzini, inviato plenipotenziario di S.M. Umberto I Re d’Italia, è stata stipulata e conchiusa la seguente convenzione:

Articolo 1 – Come conseguenza del trattato di pace fra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia firmato oggi, i prigionieri di guerra italiani trattenuti in Etiopia sono liberi. S.M l’Imperatore di Etiopia si impegna a riunirli nel più breve termine possibile e consegnarli ad Harrar al plenipotenziario italiano non appena il tratto di pace sarà ratificato.

Articolo 2 – Per facilitare il rimpatrio di questi prigionieri di guerra e per assicurare ad essi tutte le cure necessarie S.M. l’Imperatore d’Etiopia autorizza un distaccamento della Croce Rossa Italiana a venire fino a Ghildessa.

Articolo 3 Il plenipotenziario di S.M il re d’Italia avendo spontaneamente riconosciuto che i prigionieri sono stati oggetto della più grande sollecitudine da parte di S.M. l’Imperatore d’Etiopia constata che il loro mantenimento ha imposto spese considerevoli e che, per questo fatto, il Governo Italiano è debitore verso S.M. delle somme corrispondenti a queste spese. S.M. L’imperatore di Etiopia dichiara di rimettersi alla equità del Governo Italiano per indennizzarlo di questi sacrifici. Fatto ad Adis Abeba il 17 Te Kemt 1889 corrispondente al 26 ottobre 1896.

[7]  Zaghi, C “I Russi in Etiopia” Guida, Napoli, 1972.

[8] Come vedremo, con uguale diffidenza si comportarono gli italiani coi prigionieri di Caporetto, accusati di diserzione e gli ex-IMI dei Lager nazisti rei di avere consegnate le armi e dimenticando le responsabilità, in entrambi i casi, di Badoglio. Così pure si comportò Stalin, deportando in Siberia due milioni di ex-prigionieri russi dei tedeschi colpevoli d’aver trasgredito l’ordine di ”vincere o morire!