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martedì 31 gennaio 2023

Giorgio Madeddu. Prigonia Austriaca in Italia. Campo di Concentramento di Monte Narba. I Parte

3.5.4 Monte Narba   x

La miniera di Monte Narba entra nello scenario della prigionia in Italia dalle cronache del Diario del Gen. Carmine Ferrari quando rivela che, il 18 dicembre 1915, giungeva al largo dell’Asinara il piroscafo Dante Alighieri con a bordo 1.995 prigionieri di cui 635 ufficiali, fortunatamente tutti esenti da malattie contagiose. Ultimato lo sbarco degli ufficiali il giorno 21, questi furono alloggiati secondo le indicazioni del Colonnello Eldmann, ufficiale austro ungarico di grado più elevato, che suggerì la suddivisione per nazionalità.

Trascorso il peridio contumaciale, il comandante del Corpo d’Armata dispose il trasferimento di 160 ufficiali a Porto Ferraio, 150 a Cittaducale e il “maggior numero possibile” alla miniera di Monte Narba, si disponeva altresì di mantenere sull’isola tutti gli ufficiali medici e qualche ufficiale per la disciplina. Fra 30 e il 31 dicembre partirono per Monte Narba un centinaio di ufficiali.[1]

Il villaggio di Monte Narba, località di montagna a circa 700 m. S.L.M., si trova nel sud est della Sardegna, dista circa ottanta chilometri dal capoluogo regionale, amministrativamente appartenente al comune di San Vito Sardo.

Il villaggio prese corpo intorno alla miniera che sin dalla prima metà dell’Ottocento estraeva principalmente minerali di argento, piombo e zinco. Alloggi per gli operai, abitazioni per gli impiegati, edificio della amministrazione, villa della direzione, magazzini, officine, spaccio e ospedale rendevano il villaggio sostanzialmente autonomo. Il verde delle montagne circostanti ne faceva un luogo gradevole, tra l’altro, lontano dalla endemicità della malaria.

Fonti locali confermano il numero degli ufficiali prigionieri, i già noti 100 di cui il Diario del Gen. Ferraris, ma, a Monte Narba giunsero ulteriori 30 soldati specializzati[2], militari di truppa non esentati dal lavoro come invece accadeva per gli ufficiali. La loro presenza è storicamente accertata in quanto parteciparono alla realizzazione della nuova laveria, ”… l’opera fu velocemente terminata grazie all’aiuto dei militari austriaci prigionieri”. [3]

Il numero dei prigionieri di guerra presenti a Monte Narba è confermato dai documenti della Commissione Centrale per i prigionieri di guerra, al 1° gennaio 1917 a Monte Narba risultavano presenti 96 ufficiali appartenenti al gruppo proveniente da Valona e 30 uomini di truppa.[4]

Nell’archivio storico della Parrocchia di San Vito sono conservate due lettere inviate dall’allora sacerdote Don Demontis alla diocesi di Cagliari per informare sullo svolgimento delle pratiche religiose nel campo prigionieri di Monte Narba. Nella prima lettera datata 20.01.1916, Don Demontis riferisce che, in accordo con il Comando militare, si stabiliva che, da domenica 23 gennaio, si sarebbe improvvisato un altarino in un vasto locale della miniera per consentire al Capitano, Cappellano dei prigionieri, P. Gabriele Cvitanović[5] di celebrare la messa in austriaco. Don Demontis al fine di favorire la celebrazione del “santo sacrificio” assicurava di farsi carico del necessario per sostenere il sacerdote dei prigionieri ma, in considerazione della povertà della sua chiesa, chiedeva il sostegno dei “parroci cittadini” per il reperimento dei paramenti e quanto necessario per la celebrazione delle messe a Monte Narba. Il parroco di San Vito si premurava inoltre, di assicurare l’Arcivescovo di Cagliari sull’effettivo stato religioso del Cappellano dei prigionieri: Padre Gabriele Cvitanović aveva richiesto la confessione e Don Demontis trasse l’impressione di un “…contegno religiosissimo.”.

Nella seconda lettera datata 29 giugno 1916, Don Demontis comunicava al Mons. Vicario che, per espresso e ripetuto desiderio degli ufficiali austriaci, si era reso necessario modificare la giornata per la celebrazione della messa, stabilendo che questa si svolgesse tutti i mercoledì. Per mancanza di un locale idoneo le messe si svolgevano nel piazzale sotto un grosso albero di carrubo, serviva il rito un soldato austriaco sia per il suo “grave comportamento che per la correttissima pronunzia del latino…”, alla messa prendevano parte anche il comandante del campo e molti soldati italiani.

La vita degli ufficiali a Monte Narba scorreva tranquilla, tanto che, secondo testimonianze,[6] gli alloggi risultavano ben tenuti, furono realizzati giardini ben curati e persino degli orti. Nelle serate si organizzavano persino tornei di tennis. Il Sottotenete Alessandro Zechmeister riusciva addirittura ad inviare una cartolina in franchigia alla Columbia Graphophone Comp. di Milano affinché venissero spediti a Monte Narba dei dischi musicali e un catalogo recente[7].

L’esame dei registri degli atti di morte del comune di San Vito per il periodo 1915 – 1920 rivela che nel campo di Monte Narba non vi furono decessi tra i prigionieri, persino l’epidemia di influenza spagnola dell’inverno 1918, lascio indenne Monte Narba.

Un ufficiale, probabilmente un affermato pittore, decorò le pareti e le volte del fabbricato che ospitava l’amministrazione e Villa Madama, la palazzina di tre piani adibita a direzione della miniera. Per decenni i decori hanno affascinato i visitatori della miniera, oggi lo stato di abbandono del sito gli ha compromessi irreparabilmente.

Il campo di prigionia di Monte Narba ospitò anche Bogdan Devidè, militare medico “accessist ”, nato a Zagabria nel 1885. Rientrato in Croazia dopo la fine del primo conflitto mondiale, Bogdan Devidè moriva il 20 febbraio 1945 nel campo di concentramento di Mauthausen, vittima delle atrocità del nazismo[8]. Simbolicamente Bogdan Devidè rappresenta il ponte tra la prigionia di guerra del primo conflitto mondiale e la prigionia della Seconda guerra mondiale.

Il campo di Monte Narba, se pur nel contesto delle costrizioni della prigionia di guerra, ha rappresentato forse un unicum a livello nazionale, gli ufficiali prigionieri poterono dedicarsi ai loro hobby, così come i soldati italiani impiegati nella custodia dei prigionieri non ebbero modo di lamentarsi del contegno dei prigionieri loro affidati. Un clima di rispetto reciproco più volte riscontrato anche nei paesi della Sardegna dove, i distaccamenti prigionieri di guerra, operarono nei diversi lavori e di cui si dirà nel capitolo dedicato.

 

 

 

 



[1] Ferrari G.C., Relazione del campo di prigionieri colerosi all'Isola dell'Asinara nel 1915 – 1916, Provveditorato Generale dello Stato, Roma 1929

[3] Ibidem

[4] Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito (A.U.S.S.M.E.) Fondo 11 Racc. 127 cart. 6

[5] Di Padre Gabriele Cvitanovic (1877-1955) e del periodo di prigionia in Sardegna si ha notizia nel suo diario pubblicato dal nipote Karlo Jurišić sotto il titolo: Fra Gabro Cvitanović i njegov Ratni dnevnik (1914.-1918.), Spit 1984. Il frate dell’Ordine dei Minori Francescani, reduce della lunga marcia della morte nei Balcani, sbarcò sull’Asinara per poi essere inviato alla miniera di Monte Narba.

[6] Mezzolani S. e Simoncini A., La miniera d'argento di Monte Narba, Gia Editore – Cagliari, 1989

[7] Madeddu G. La Damnatio ad Metalla, Gaspari Editore – Udine 2018

[8] Mauthausen Memorial Archives - https://raumdernamen.mauthausen-memorial.org


venerdì 20 gennaio 2023

Prigionia in URSS . Il retaggio Note

 

Unione Sovietica.



La prigionia in mano alla U.R.S.S. è quella che ha inciso più a fondo nel retaggio  del sistema socio-politico del dopoguerra. Prima che scoppiasse la guerra fredda, nella metà del 1946, già si avvertivano i sintomi di quelle che saranno le polemiche spesso roventi del dopoguerra. Il 20 agosto 1946, dopo un anno di attesa e di aspettative sempre più crescenti, quando tutti gli altri Paesi belligeranti avevano restituito in grandissima parte i prigionieri in loro mani, un comunicato del Governo di Mosca molto sobrio ed asciutto fa presente che tutti i prigioneri italiani in mano alla URSS erano stati restituiti, tranne un esiguo numero, circa 27, tra ufficiali e soldati, considerati criminali di guerra ed in attesa di giudizio. Tra questi anche un cappellano militare, Padre Brevi, considerato dai sovietici una spia del Vaticano.

In Italia le aspettative erano altre. Si aspettava il rientro di circa 70/80 mila prigionieri dalla Russia. A tutto il 1946 erano stati restituiti 21.000 soldati, di cui circa 11.000 appartenenti all’ARMIR i restanti liberati dall’Armata Rossa dai campi di concentramento tedeschi nella sua avanzata verso occidente.

La polemica divampò violentissima, e si manifestò in modo particolare nello scontro politico tra i partiti di sinistra, in particolare il PCI e i partiti del centro, in particolare la Democrazia Cristiana. L’accusa principale era che la URSS tratteneva i prigionieri italiani come schiavi, per ragioni ideologiche.

La realtà, emersa negli anni novanta all’indomani del crollo della URSS e alla parziale apertura degli archivi sovietici, era ben diversa da quella ipotizzata in Italia. La URSS aveva ragione nel sostenere che aveva restituito tutti i prigionieri italiani in suo possesso. Infatti è stato documentato[1] che l’Armata Rossa, nella sua avanzata verso occidente catturava circa 11.000/11.500 soldati dell’ARMIR e li avviò ai campi di smistamento ( le cosiddette marce del Davai). Nei campi di smistamento entrarono quelli che poi vennero restituì, tranne una percentuale dell’1% che morì per malattie o cause naturali.[2]

La vicenda dei prigionieri in mano alla URSS continuò in temi sempre aspri fino al 1954 quando, dopo la morte di Stalin, furono restituiti gli ultimi prigioneri, circa 10, trattenuti con pretesti e motivi vari.

 Il retaggio di questo particolare segmento del V fronte della Guerra di Liberazione è estremamente pesante. L’Italia inviò prima un Corpo di Spedizione, poi una Arma che raggiunse circa i 200.000. Nel corso delle offensive sovietiche del novembre-dicembre 1942 – gennaio febbraio 1943, che si conclusero con la caduta di Stalingrado, che determinarono la svolta della guerra in Oriente, le forze italiane furono annientate. Circa 100.000 uomini riuscirono a salvarsi tramite una ritirata, la celeberrima ritirata di Russia, ma altrettanti rimasero sul campo. Non per le vicende della guerra, ma in virtù della insipienza dei Comandati italiani sul campo, delle imposizioni tedesche e di un male interpretato senso dell’onore militare. Composte tutte da forze di fanteria, senza mezzi corazzati e meccanizzati, il compito era quello di resistere fino allo stremo sulle posizioni del Don. Una volta che la battaglia avrebbe rilevato le direttrici di attacco in profondità dell’attaccante sovietico, avrebbero dovuto intervenire le forze mobili tedesche, per chiudere le falle. Il compito delle forze Italia quindi fu assolto. L’errore fu il non aver dato di arrendersi sul posto. Sarebbe stata la salvezza di oltre 80.000 soldati italiani. Al contrario, messisi in marcia verso occidente, quanto contemporaneamente i sovietici provvedevano a distruggere tutta l’organizzazione logistica di retrovia con puntate di forze mobili, la speranza di sopravvivere nella steppa d’inverno erano presso che nulle. Infatti i comandi sovietici locali non inseguirono i soldati italiani in marcia, conviti e sicuri che la steppa, il cosidetto generale Inverno, li avrebbe uccisi. Come in realtà accadde. Il prezioso retaggio di questo segmento del V fronte è quello che occorre avere sempre autonomia decisionale quando si partecipa in una coalizione fi forze internazionali ed occorre sempre, in lealtà con gli alleati, preservare l’interesse nazionale. Un retaggio che permeò nel dopoguerra la partecipazione delle forze nazionali alle cosiddette Missioni di Pace, coalizioni internazionali sotto egida id organizzazioni sovranazionali.



[1] UNIRR, Rapporto UNIRR, 1995. In Italia la cifra dei presunti prigionieri era stata fissata in circa 84.000. Dei 201.0000 militari italiani presenti al fronte ai primi di dicembre, come attestano i documenti della Direzione di Commissariato dell’ARMIR sulla forza vettovagliata, ne erano rientrati in Italia 101.000. Pertanto considerate le perdite, a larghe spanne, la cifra dei prigioneri doveva essere circa 84.000 considerate le perdite. In realtà dei 101.000 soldati mancati, 90.000 erano Caduti nella ritirata e circa 11.000 raccolti come prigioneri dai sovietici, che in effetti restituirono. Vds. Coltrinari M., Le Vicende dei Militari Italiani in URSS, Roma, Archepares, 2021.

[2] Il tasso di mortalità nella prigionia in URSS è più o meno quello delle altre prigionie in mano della Gran Bretagna, Francia e Stati uniti.

martedì 10 gennaio 2023

Prigionia austriaca in Italia I Guerra Mondiale. Lineamenti generali

 Progetto Prigionia 2020

Premessa

Nel susseguirsi dei volumi della Collana dedicata alla prigionia della Prima guerra mondiale, questo, il sesto, tratta della prigionia austro ungarica, precedendo i volumi che tratterranno la prigionia italiana in Austria, il settimo, e la prigionia italiana in Germania, l’ottavo. L’architettura di questo volume è stata scelta adottando il criterio dei 111 campi di concentramento che nel corso del conflitto sono stati aperti per ospitare i prigionieri di guerra dei nostri nemici. Questo criterio è stato sovrapposto al criterio della dipendenza dai comandi superiori, ovvero i Comandi di Armata Territoriali, in cui al tempo l’Italia era divisa dal punto di vista militare. Questi avevano giurisdizione su più regioni, quindi superando la suddivisione regionale. L’articolazione geografica adotta poi si affina raggruppando questi Comandi in tre comparti, il nord, il centro ed il su per una visione più di sintesi. All’interno di questa articolazione sono elencati i campi con il proprio nome che è preso dalla località in cui insiste. Per ogni campo la descrizione segue le fasi della prigionia di guerra adattata a questa ricerca, ovvero dando per scontato la fase della cattura (resa, raccolta, avvio all’indietro, avvio ai campi di smistamento) si descrive la descrizione (geografica e strutturale) del campo e quale percorso i prigioneri abbiamo fatto per arrivarci, la vita al campo, il trattamento ricevuto da parte delle autorità italiane, con le relative fonti memorialistiche e documentali se esistenti, e, infine, il rimpatrio. In linea generale i campi di concentramento, almeno i principali, furono tenuti aperti anche negli anni del primo dopoguerra, anche con nuove funzioni o particolari attività che se del caso, verranno indicate.

I limiti di spazio sono individuati nel territorio sotto la giurisdizione del Regno d’Italia dal 1914 ai primi anni venti. Si farà cenno anche ad eventuali campi aperti in zone d’operazioni del Regio Esercito, ovvero in Albania e nei Balcani in genere.

I limiti di tempo vanno dalla crisi del 1914, ai primi anni venti, un arco di tempo di circa sei sette anni.

Non verranno presi in esame quei campi di concentramento adibiti esclusivamente ad internamento di guerra, oppure ad accogliere profughi dal Veneto e dalle terre invase dopi il 1917, o con altre destinazioni di persone aventi status giuridico diverso da quello di “prigionieri di guerra”.

La problematica, la finalità e lo stato della ricerca con questo volume, si può dire che ha raggiunto il giro di boa e si avvicina alla sua conclusione. Dopo aver con il primo volume dato un quadro e i lineamenti della prigionia, a cui si rimanda per ogni questione di carattere generale, e proposto volumi particolari come la geografia dei campi di concentramento in Austria-Ungheria, l’epistolario di un prigioniero, la memoria con questo volume apriamo una finestra sulla prigionia dei nostri avversari, propedeutica a quella che andremo a ricostruire con i volumi che seguiranno, ovvero la prigionia italiana in Austria e in Germania nei sui reali contenuti.

Infine occorre sottolineare come queste ricerche vogliono anche sottolineare il valore militare del prigioniero di guerra, di essere fedele al giuramento prestato in condizioni estremamente difficili, disarmato, valore militare che in gran parte non è stato tangibilmente riconosciuto.