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venerdì 30 aprile 2021

L’influenza spagnola nel campo di prigionia di Weißenhorn. La morte del soldato Mario Costa di Iglesias.

 

Giorgio Madeddu

 

La tormentata vicenda dei soldati italiani finiti prigionieri del nemico, non si esaurisce con gli aspetti relativi ai diversi lavori a cui furono adibiti, alla fame e alla morte per inedia da questa causata o alle condizioni igienico – sanitarie assai scadenti, un altro tormento giunse sul finire del 1918, inatteso quando subdolo: l’epidemia di influenza spagnola.

Il 16 giugno 1917, compiuti 18 anni da appena 16 giorni, il giovane studente iglesiente Mario Costa, soldato di leva di prima categoria, classe 1899, veniva chiamato alle armi. Il 4 luglio raggiungeva il deposito del 3° Reggimento Genio Telegrafisti, nel quale veniva incorporato. Nell’agosto seguente il geniere Costa si trovava già in territorio dichiarato in stato di guerra.

Nell’ottobre 1917 il soldato Costa risultava effettivo della 49a compagnia telegrafisti. La 49a compagna Genio Telegrafisti faceva parte del XXVII° Corpo d’Armata comandato dal Ten. Gen. Pietro Badoglio. Il XXVII° Corpo, era ordinato in un Comando d’Armata e tre divisioni, la 49a compagnia telegrafisti era incardinata nel Comando d’Armata.

Nei giorni che precedettero la battaglia di Caporetto, il XXVII° Corpo d’Armata, si trovava schierato su una linea di circa 12 chilometri, 9 lungo la destra dell’Isonzo, dal Krad Vrh alla sponda del fiume sulla linea di Plezia – Foni, i restanti 3 sulla sinistra dell’Isonzo.

La notte del 24 ottobre alle ore 2,00 in una notte di intensa pioggia, un violento fuoco nemico rovesciava su tutta la fronte del XXVII° Corpo proiettili a gas alternati da proiettili d’artiglieria di tutti i calibri. Il tiro proseguiva per diverse ore riducendo d’intensità, sino a cessare del tutto, tra le 5 e le 6. Intorno alle ore 6,30 il fuoco nemico riprendeva con estremo vigore battendo, con ritmo tambureggiante, le posizioni di linea e le retrovie del XXVII° Corpo.

Tra le 7,30 e 8,00 le fanterie nemiche attaccarono su più settori la linea tenuta dal XXVII° Corpo, la situazione si presentò subito difficile, le comunicazioni tra il Comando d’Armata e le divisioni ben presto furono interrotte, pioggia e nebbia impedivano la visibilità tanto da rendere inutilizzabili le stazioni fotoelettriche. Intorno alle 9,00 si rendeva necessario l’invio di plotoni telegrafisti per tentare di riattivare le linee danneggiate. L’intervento dei telegrafisti non ottenne l’effetto sperato, dal telegramma che alle ore 13, il gen. Cavacciochi comandante del IV° Corpo d’Armata inviava al Comando d’Armata per comunicare la situazione della fronte di competenza del IV° Corpo, si apprende: “Nessuna notizia XXVII° Corpo Armata.”

Entro poche ore, nonostante la strenua resistenza dei reparti schierati si dovete constatare la rottura del fronte presidiata dal XXVII° Corpo, nella serata numerose brigate avevano perso quote importanti di effettivi e ingenti danni venivano lamentati alle artiglierie.

Il giorno successivo il telegrafista Costa non fece rientro alla propria compagnia e non si poté far altro che dichiararlo disperso.

In seguito, si apprese che il telegrafista Costa fu fatto prigioniero nella prima giornata dell’attacco del nemico, tradotto a Weißenhorn, cittadina agricola della Baviera, fu destinato ai lavori agricoli nelle fattorie della zona.

Nei primi giorni del novembre 1918, il giovane Costa e i suoi compagni di prigionia accusarono i sintomi della Spanische Grippe. Mario Costa morì il 7 novembre 1918 all’età di 19 anni negli alloggiamenti prigionieri posti nel centro della città. Il corpo del soldato Costa, inizialmente sepolto nel cimitero di Weißenhorn, venne successivamente traslato e oggi è sepolto nel Cimitero Militare Italiano d'Onore a Monaco di Baviera.

La notizia della morte del soldato Costa giunse al sindaco di Iglesias con comunicazione del 10 aprile 1919 da parte del Deposito del 3° Reggimento Artiglieria da Fortezza di Roma. Il comandante del deposito invitava “Con animo commosso”, il sindaco di Iglesias, “di partecipare, con affettuosa cautela, alla famiglia del Militare Costa Mario (1899) la morte di lui avvenuta il 7 - 11 - 1918 (presso il nemico) a Lechfeld per grippe ed è stato sepolto nel cimitero locale”, pregando inoltre il sindaco “di rendersi interprete delle mie più sentite condoglianze presso la famiglia per l’immatura perdita del loro congiunto.”

Al sindaco di Iglesias giunse anche la comunicazione del decesso da parte del comandante del 3° Reggimento Genio Telegrafisti che pregava lo stessi sindaco di presentare alla famiglia del defunto militare “le condoglianze del sottoscritto e dei compagni d’arme.”

La comunicazione del 3° Genio differisce dalla lettera del Deposito 3° Reggimento Artiglieria da Fortezza di Roma nella località di morte del soldato Costa, infatti nella comunicazione del 3° Genio è indicata, quale località di morte, la città di Weißenhorn, località riportata in seguito negli atti ufficiali.

Il Registro degli atti di Morte del Comune di Iglesias nella “serie C” dell’anno 1927, riporta la notizia della morte del soldato Mario Costa trascrivendo, tradotti, gli atti prodotti dal nemico.

 

 

 

 

Fonti:

Archivio dello Stato di Cagliari – Ruoli Matricolari Distretto Militare di Cagliari

Archivio Storico e Registri Atti di Morte del Comune di Iglesias – Militari morti, feriti, dispersi in guerra e prigionieri di guerra – Corrispondenza diversa.

Chirra Giuliano, Mortos in terra anzena. 2008

L'Esercito Italiano nella Grande Guerra - Vol. IV tomi 2 e 3

Südwest Presse del 27 dicembre 2014. Spanischen Grippe: Kriegsgefang

martedì 20 aprile 2021

Prigionieri di guerra italiani nel campo di concentramento austriaco di Feldbach in Stiria.

 

Giorgio Madeddu


La storia è fatta dagli uomini, anche quella dei campi di concentramento durante la prima guerra mondiale è fatta da migliaia di piccole di storie, quelle dei soldati italiani caduti in prigionia nei campi di battaglia.

Miscali Giovanni Battista di Antioco e Mele Maria Giuseppa nasceva a Ghilarza (OR) il 22 settembre 1890 di mestiere contadino. Nell’agosto 1916 giungeva in territorio dichiarato in stato di guerra assegnato al 230° reggimento fanteria della Brigata Campobasso.

Il 15 maggio 1917 riportava ferita al torace per scoppio di granata nemica nell’azione di conquista del Monte Santo. Rientrava dalla licenza di convalescenza nell’agosto seguente e seguiva il reggimento nel trasferimento sulla fronte dell’Isonzo.  

Cadeva prigioniero e moriva nel campo di concentramento austriaco di Feldbach in Stiria il 19 luglio 1918 per malattia.

Oltre al ricordo dei congiunti rimangono consegnate alla storia e al rispetto dovuto, 3 cartoline postali in franchigia per prigionieri di guerra, inviate dalla madre affranta di Giovanni dalla natia Ghilarza.


 Ghilarza, 29 luglio 1918

Figlio Carissimo noi sempre ottima salute cosi spero di te però mi ritrovo tanto dispiaciuta come hai scritto che ancora non hai ricevuto niente pacchi e né cartoline, noi da quando hai scritto abbiamo sempre spediti i pacchi e le cartoline, te ne mandiamo fino due ogni settimana. Caro appena ricevi qualche cosa ti prego scrivere subito che non puoi credere il dispiacere che per questo di non sapere che hai ricevuto niente, ti prego stare allegro e tranquillo io spedisco sempre i pacchi, prega sempre a Dio e alla Madonna e loro ti aiuteranno. Caro ti faccio sapere che Daniele si trova in paese in licenza, ti mando mille baci e abbracci di tue sorelle, i saluti di Daniele e sono tua affettuosa mamma Maria.

Quando mamma Maria scriveva questa cartolina Giovanni era morto da ormai 10 giorni, nella cartolina si legge tutto il dolore e la preoccupazione per la salute e il benessere del figlio, lo affida alla preghiera e alla protezione di Dio e della Madonna, soffre perché i pacchi con gli alimenti e le cartoline da lei spedite, anche due alla settimana, non ottengono nessun riscontro. Una bella notizia comunque la trasmette, Daniele Miscali, probabilmente il cugino è rientrato in paese in licenza.  (segue)










sabato 10 aprile 2021

Das Kriegsgefangenen – und Internierungslager Boldogasszony/Frauenkirchen

 

Herbert Brettl

 

Das Kriegsgefangenen – und Internierungslager Boldogasszony/Frauenkirchen

„Sie leben nicht mehr der Gegenwart, sondern der Zukunft zuliebe.“

 

Vorwort

 

Rund einen halben Kilometer westlich von Frauenkirchen, ungarisch als Boldogasszony bezeichnet, in Richtung Podersdorf steht eine Hinweistafel, die auf einen Kriegsgefangenenfriedhof, im Volksmund, Serbenfriedhof genannt, aufmerksam macht. Auf dem Gelände des weitläufigen Areals befinden sich eine kleine Kapelle, ein Mahnmal in serbischer Sprache, Steinkreuze und eine wenig aussagekräftige Gedenktafel. In Frauenkirchen selbst existieren eine Lagerstraße und ein Lagerhof, doch Informationen über die Herkunft der Bezeichnungen sucht man vergeblich. Etwas Mystisches liegt im Raum, wenn die Bevölkerung von einem Lager spricht, jedoch nichts Genaueres davon weiß.

 

Tatsachlich wurde im Herbst 1914 in Boldogasszony/Frauenkirchen eines der größten Gefangenenlager der osterreich-ungarischen Monarchie errichtet. Die Geschichte des Lagers, das zugleich ein Internierungs, Kriegsgefangenen und Kriegsgefangenenoffizierslager war, ist vielfaltig, komplex und durchaus verworren. Um den Spuren des Lagers zu folgen, ist es notwendig, sich nicht nur nach Wien, sondern auch nach Budapest und insbesondere nach Bratislava zu begeben. Die historischen Dokumente befinden sich heute in verschiedenen Archiven, da sich das Lager in einem Gebiet befand, das damals von Ungarn politisch verwaltet wurde, dessen militärischer Oberbefehl in Wien lag und dessen militärisches Kommando in Pozsony/Bratislava war. Während die Quellenlage im Burgenland marginal ist, fanden sich etwas überraschend auch Fotos und Dokumente in Belgrad, Genf, Basel oder Minneapolis. Die Wirren während des Zerfalls der Monarchie, die Abtrennung der Armeekommandostadt Pozsony, der Streit um die Abtrennung und um den späteren Anschluss des Burgenlandes erschwerten die Dokumentation über den Aufbau und erst recht über das Ende des Lagers.

 

Im folgenden Buch wird versucht, die Geschichte des Lagers Boldogasszony/Frauenkirchen und die Situation der Gefangenen etwas zu beleuchten. Die Lagerinsassen waren Serben, Russen, Montenegriner, Italiener, Mazebulgaren und andere, die hier Jahre, sofern sie überlebten teilweise bis zum Ende des Krieges, inhaftiert waren. Ihr Leben im Lager wurde von einem Arzt des Roten Kreuzes wohl treffend mit der Aussage beschrieben: "Sie leben nicht mehr der Gegenwart, sondern der Zukunft zuliebe."


 

Einleitung

 

Kriegsgefangene im historischen Zeitraffer

 

Die Gefangennahme feindlicher Soldaten verfolgt das Ziel, dem Gegner möglichst viele wehrfähige Männer zu entziehen, um ihm bei seinen Kriegsaktivitäten zu schaden. Lange Zeit in der Geschichte erwartete die Kriegsgefangenen, auf Triumphzügen der siegreichen Feldherren als Kriegsbeute zur Schau gestellt, das Schicksal der Versklavung. Vielfach wurden Kriege nämlich zum Zweck der Sklavenbeschaffung geführt, da der Gefangene zu jeder Zeit einen wichtigen Wirtschaftsfaktor darstellte. Nachdem aus religiösen Gründen nach dem dritten Laterankonzil 1179 der Verkauf von Christen in die Versklavung verboten worden war, war es nicht mehr rentabel, viele Gefangene zu machen. Im Mittelalter und in der Neuzeit wurden Gefangene auf dem Schlachtfeld niedergemacht, nach Abgabe des Ehrenwortes laufen gelassen oder gegenseitig ausgetauscht. Lange Gefangenschaften waren nicht erstrebenswert, da die Gefangenen versorgt werden mussten. Während die Genfer Konvention 1864 international gültige Richtlinien zur Behandlung von kranken und verwundeten Soldaten brachte, blieb die Betreuung der Kriegsgefangenen weiterhin den jeweiligen Ländern überlassen.

 

Während des Amerikanischen Bürgerkrieges (1861-1865) gerieten rund 400.000 Soldaten in die Hand des Feindes. Die alte Gepflogenheit, Gefangene gegen Ehrenwort freizulassen oder auszutauschen, war kaum mehr gegeben, da man die Gefangenen am Beginn des Krieges auf beiden Seiten als Kriminelle betrachtete und die schwarzen Gefangenen von den Konföderierten aus rassistischen Gründen nicht als Kriegsgefangene anerkannt wurden. In der Annahme, dass der Krieg bald beendet sei, brachte man sie in sogenannte Zwischenlager. Überfordert von der großen Anzahl der Gefangenen und den kaum getroffenen Vorkehrungen wurden die Lager zum Albtraum. In den total überfüIIten Einrichtungen fehlte es an sanitären Maßnahmen und Nahrungsmitteln, sodass über 56.000 Soldaten an Krankheiten wie Ruhr, Durchfall, Flecktyphus, etc. in der Gefangenschaft starben. Der erste moderne Krieg führte zu einer Katastrophe des Kriegsgefangenenwesens.

 

Im Deutsch-Französischen Krieg von 1870/71 kamen rund 400.000 Franzosen, meist irreguläre Kombattanten, in deutsche Kriegsgefangenschaft. Weil der Krieg kurz war, konnten diese noch relativ gut versorgt werden, doch wurde das Kriegsgefangenenproblem so in das Bewusstsein der europäischen Öffentlichkeit und Politik gebracht.

 

Nach den Erfahrungen aus dem Amerikanischen Bürgerkriegs und aus dem Krieg von 1870/71 waren zunehmend mehr Staaten bereit, ein für alle geltendes Kriegsrecht zu schaffen.

 

 

Die Haager Landkriegsordnung

 

Während durch die Genfer Konvention von 1864 der Schutz und die Versorgung von kranken und verwundeten Soldaten in Aussicht gestellt wurden, blieben die Bemühungen, das Kriegsrecht zu kodifizieren, zunächst erfolglos. Erst in der Haager Konvention/Landkriegsordnung von 1899 bzw. 1907, die von 44 Staaten, darunter Österreich-Ungarn, Deutschland, Russland, die Vereinigten Staaten, Großbritannien und Frankreich, Unterzeichnet wurde, einigte man sich auf eine völkerrechtliche Regelung der Kriegsführung. Dabei wurden auch Bestimmungen formuliert, die die Behandlung von Gefangenen durch die Feindstaaten regelten und es wurde klar zum Ausdruck gebracht, dass Kriegsgefangene zwar der Gewalt der feindlichen Regierung unterstehen, aber nicht als Strafgefangene angesehen werden dürfen. Zudem regelte das Abkommen die Unterbringung der Feindsoldaten sowie deren Verwendung als Arbeitskräfte.

 

Die kriegsteilnehmenden Staaten waren auch verpflichtet, für den Unterhalt der Gefangenen aufzukommen und diese hinsichtlich Kleidung, Unterkunft und Nahrung in gleichem Masse zu versorgen wie die eigenen Truppen. Zusätzlich stand den gefangenen Offizieren ein Sold zu, der in seiner Höhe dem Sold von dienstgradgleichen Offizieren des Feindstaates entsprach.

 

Die einzelnen Artikel der Bestimmungen galten als verbindliches Völkerrecht, doch kam es immer wieder zu Fallen der Missachtung, da man in der Praxis oftmals von der Theorie abwich. Ebenso fiel die Interpretation der Haager Landkriegsordnung sehr unterschiedlich aus. Zum Zeitpunkt des Abkommens machte sich auch noch niemand konkrete Vorstellungen über künftige Engpasse jeglicher Art oder Lebensmittelknappheit, die sich im Alltag auf den Umgang mit den kriegsgefangenen Mannschaftssoldaten und Offizieren auswirkten.

 

Im Ersten Weltkrieg stand die Haager Landkriegsordnung zum ersten Mal in großem Ausmaß auf dem Prüfstein. Bereits in den ersten Kriegswochen gelangten hunderttausende Soldaten in Gefangenschaft. In den weiteren Kriegsjahren, als rund acht Millionen in Lagern einsaßen, zeigten sich die verschiedenen Formen der Umsetzung und die Probleme der Haager Landkriegsordnung.

 

Der „große Krieg" und die Kriegsgefangenschaft

 

Mit Ausbruch des „Großen Krieges“, später als Erster Weltkrieg bezeichnet, beginnt in der Geschichte eine neue ära der Kriegführung. In geographischer Hinsicht, wegen der Quantität der mobilisierten Soldaten und der verwendeten Ressourcen sowie angesichts der umfassenden strategischen Ziele der kriegsteilnehmenden Staaten lasst sich der „Große Krieg“ als „totaler Krieg“ definieren. Auch die Dimension der Kriegsgefangenschaft stellte alles bisher Dagewesene in den Schatten.

 

Zwischen acht und zehn Millionen Soldaten und Zivilisten befanden sich während des Krieges in Gefangenschaft. Insbesondere an der östlichen und südöstlichen Front, wo im Gegensatz zur westlichen und südwestlichen Front bis 1917 ein Bewegungskrieg stattfand , war die Möglichkeit in Gefangenschaft zu geraten, um ein Vielfaches höher. Österreich-Ungarn und Deutschland machten zusammen etwa die Hälfte aller Kriegsgefangenen. Ende Oktober 1918 waren es auf deutscher Seite rund 2,4 Millionen, während Österreich-Ungarn zwischen 1,2 und 1,8 Millionen Gefangene in die Hände fielen. Die Kriegsteilnahme der USA, Japans und der Kolonialstaaten trug dazu bei, dass über den ganzen Globus verteilt Gefangenenlager errichtet wurden.

 

Die Kriegsgefangenenlager in der Monarchie Standortwahl

 

Strategie des Militärs war, die feindlichen Soldaten so rasch als möglich aus dem Kampfgebiet in nicht unmittelbar betroffene Regionen zu bringen. Neben den österreichischen Kronländern Cisleithaniens kamen hier aufgrund ihrer Entfernung von der Front die Gebiete Transleithaniens in Betracht, insbesondere der Militärkommandobereich Pozsony. Böhmen und Mahren wurden als Kriegsgefangenenstandort aus politischen Gründen ausgeschlossen, da man die dortige slawische Bevölkerung als politisch unzuverlässig einstufte. Ernst von Streeruwitz, zuständig für den Kriegsgefangenenschutz in der Habsburgermonarchie, meinte dazu, dass man die dortige Bevölkerung beschuldigte, keine Distanz gegenüber den russischen Gefangenen einzuhalten.

 

Als Italien im Mai 1915 als Kriegsgegner von Österreich-Ungarn auftrat, wurden die Lager in Tirol, Kärnten und der Untersteiermark aufgegeben. Bereits kurz nach Kriegsausbruch wurden tausende Kriegsgefangene von der Front ins Hinterland gebracht. Als bevorzugte Objekte für die „Bequartierung" sah man militärische Bauten, wie ungenutztere Festungsanlagen oder Truppenübungslager, vor. Die Österreich-Ungarische Monarchie konnte diesbezüglich auf keine Erfahrungen zurückgreifen und die Zivil- und Militärbehörden waren auf die große Zahl von Kriegsgefangenen unzureichend vorbereitet. Probleme schaffte die Unterbringung der Kriegsgefangenen. Sie wurden vielfach in primitiven Behelfsquartieren, wie Zeltlagern, Erdhütten, leer stehenden, zum Teil halb verfallenen, Fabrikgebäuden oder Kleistern untergebracht.

 

Dem Kriegsverlauf entsprechend erfolgte die Gefangennahme in drei gröberen Phasen: nach der kurzfristigen Einnahme Belgrads, bis zum Jahresende 1914, nach der Rückeroberung grober Teile Galiziens im Frühjahr 1915 und nach der Offensive gegen Italien im Herbst 1917. lm Dezember 1914 befanden sich bereits an die 200.000 feindliche Soldaten in Österreich-Ungarischer Kriegsgefangenschaft. Bis Ende 1918 waren nach statistischen Angaben in Österreich-Ungarn 916.000 Soldaten in Lagern interniert.

 

Um diese Massen an Kriegsgefangenen bewältigen zu können, beschloss die k.k. Militärverwaltung, in diesem Fall das Kriegsüberwachungsamt, so rasch wie möglich groß angelegte, einfacher zu bewachende Sammellager im Hinterland der Monarchie zu errichten. Zunächst wurden Flächen im Umfeld von Kasernen, Exerzier oder Truppenübungsplätzen herangezogen. Als man diesbezüglich alle Möglichkeiten ausgeschöpft hatte, musste man sich nach anderen Anwesen umsehen. Kommissionen des Kriegsministeriums hatten zu prüfen, ob die Lagerstandorte neben den politischen und militärischen Faktoren auch ökonomische Bedingungen und Auflagen erfüIIten. Dabei wurden Flachen von Großgrundbesitzern bevorzugt. Diese Flächen wurden vom Kriegsministerium befristet gepachtet und zudem wurde die Wiederherstellung des ursprünglichen Zustandes der Grundstücke nach der Benutzung vereinbart. Weiters sollten die Kommissionen beachten, dass die Grundstucke trocken waren und bestenfalls Schotterboden aufwiesen, da sich diese besser zum Aufbau der Baracken und zur Anlage von Wegen eigneten. Ebenso sollten sich die Lager nicht direkt in bewohnten Gebieten befinden. Um den Transport der benötigten Lebensmittel, Baumaterialien, Wachmänner und Gefangenen einfacher gestalten zu können, sollte außerdem eine gute Anbindung ans Eisenbahnnetz gegeben sein.

 

Sofern die Militärbehörden eine Flache ausgewählt hatten, so konnte dies nach dem Kriegsleistungsgesetz aus dem Jahre 1912 nicht mehr verhindert werden. Die betroffenen Landesstatthaltereien oder Gemeindebehörden hatten bei der Errichtung lediglich ein Recht auf Anhörung und kein Vetorecht.

 

In kürzester Zeit wurden in der Monarchie ab Herbst 19 14 an die 50 Kriegsgefangenenlager errichtet; die Offiziersstationen oder Internierungslager wie Neusiedl am See nicht mitgerechnet. Nach einer Weisung des Kriegsministeriums sollten gefangene Offiziere in „gesonderten Internierungsstationen“ untergebracht werden, „wo sie bessere Existenzbedingungen finden als in den Massenlagern“.

 

(p. 10)

 

Die Gefangenenlageranzahl variierte, da im Laufe des Krieg es neue dazukamen oder andere geschlossen wurden. Im Jahr 1918 bestanden folgende Lager:

 

1) Aschach an der Donau

2) Bruck-Királyhida

3) Braunau am Inn

4) Boldogasszony

5) Braunau in Böhmen

6) Brüx

7) Csόth bei Papa

8) Deutsch-Gabel

9) Dunaszerdahely

10) Eger in Böhmen

11) Freistadt

12) Feldbach-Mühldorf

13) Grödig bei Salzburg

14) Hart bei Amstetten

15) Hajmásker

16) Heinrichsgrün

17) Josefstadt

18) Kenyérmezö-Tabor

19) KleinMünchen

20) Knittelfeld

21) Lebring in der Steiermark

22) Marchtrenk

23) Milowitz

24) Mauthausen

25) Mühling

26) Nagymegyer

27) Ostffyassonyfa

28) Oswiecim/Auschwitz

29) Plan

30) Purgstall an der Erlauf

31) Reichenberg

32) Sigmundsherberg

33) Somorja

34) Spratzern

35) Sopronnyék

36) Sternth al bei Pettau

37) Szatmárnémeti

38) Theresienstadt

39) Wadowice

40) Wieselburg an der Erlauf

41) Zalaegerszeg

 

 

 

Die Errichtung der Lager erfolgte wegen der großen Menge an Gefangenen unter massivem Zeitdruck und unter solchen finanziellen Rahmenbedingungen, dass Missstande bei der Errichtung vorhersehbar waren. Die anfangs nur notdürftig errichteten Baracken und andere Provisorien wurden dem Ansturm an Kriegsgefangenen in allen kriegführenden Staaten nur teilweise gerecht. Die ersten Lagerkomplexe bestanden vielfach noch aus einfachen Zeltreihen oder Holzbaracken, wobei die sanitären Einrichtungen massiv vernachlässigt wurden. Die man gelhaften hygienischen Vorkehrungen und die massive Konzentration von Personen auf engstem Ra um führten im Winter 1914/15 dazu, dass sich Epidemien wie Flecktyphus rasch ausbreiten konnten. Um diese Unzulänglichkeiten zu beseitigen und um die geforderten bauhygienischen Richtlinien zu erfüIIen, forderte und erledigte das Kriegsministerium im Frühjahr 1915 noch rasch entsprechende Adaptierungsarbeiten.


 

Lagerfriedhof – Kriegsgräberfürsorge

 

Der Lagerfriedhof

 

Wann der Friedhof genau angelegt wurde, ist nicht belegt. Seine Errichtung durfte jedoch beinahe gleichzeitig mit der des Lagers erfolgt sein, da es keine Angaben zu verstorbenen und am Ortsfriedhof beerdigten Kriegsgefangenen gibt. Der Friedhof befindet sich im Besitz der Domäne Esterhazy und ist im Grundbuch als „öffentlicher Beerdigungsplatz“ eingetragen. Das Areal umfasst 19.000 m2 und ist 176m breit bzw. 140m lang, wobei die rechte Seite abgeschrägt ist.

 

Während das Lager von Inspektionen geprüft und beschrieben wurde, findet man über das Aussehen des Friedhofes während des Lagerbetriebes von 1914 bis 1918 nur die Beschreibung des Arztes Otto Knüsel aus dem Jahre 1916: „In langen Reihen sind die Grabhügel nebeneinander. Hinter jedem Hügel steht ein einfaches schmuckloses Kreuz mit dem Namen oder der Nummer des Toten. In den Massengräbern liegen die Toten des Flecktyphus. Lange flache Beete. In einem Massengrab liegen 400 Tote. Die Flecktyphusepidemie ist erloschen und nun erhält wieder jeder Tote sein Einzelgrab. Daneben gibt es noch drei größere reichverzierte Kreuze. Hier liegen drei Offiziere, Opfer der Seuche. Sie sind mit militärischen Ehren bestattet worden. Eine Aufschrift: ‚Hier ruht Dr. D., kaiserlich, russischer Oberstabsarzt. Das Opfer seines edlen Berufes'."

 

Die sogenannten „schmucklosen Kreuze" waren einfache Holzkreuze, die teilweise bereits kurz nach der Auflassung des Lagers von Holzsuchenden entwendet wurden. 1929 berichtete der Friedhofsaufseher von abgefaulten verbliebenen Holzkreuzen. Deshalb waren die Graber nur mit fortlaufenden Nummern versehen worden. Zu diesem Zeitpunkt befanden sich am Friedhof auch noch zwei Eisenkreuze von montenegrinischen Offizieren mit der cyrillischen Aufschrift „C.H.II“.

 

Da von rund 6.000 im Lager Verstorbenen nur rund 2.200 Tote mit ungarischen Vornamen in der Gemeinde matrikuliert wurden, und da die Aufzeichnungen des Lagerkommandos nur unvollständig erhalten sind, ist keine konkrete Auflistung der auf dem Friedhof Begrabenen möglich. Es kann davon ausgegangen werden, dass rund 95% aller Beerdigten aus Serbien kamen. Nach Angaben der Matrikelbücher finden sich noch 50 Montenegriner, 15 Russen, zwei Bulgaren, zwei Rumänen, ein Italiener, ein Albaner und fünf Unbekannte unter den Beigesetzten. Andere Aufzeichnungen weisen 50 italienische Gefangene aus, die auf dem Friedhof des Lagers Boldogasszony begraben sind.

 

 

Der Friedhof während der 1. Republik und im Nationalsozialismus

 

Im Friedensvertrag von Saint-Germain-en-Laye 1919 verpflichtete sich österreich, dafür Sorge zu tragen, dass die Grabstätten von Kriegstoten, die sich auf österreichischem Territorium befinden, gepflegt und instandgehalten werden. Auch die alliierten und assoziierten Mächte. Übernahmen freiwillig eine derartige Verpflichtung. Die österreichische Regierung betraute ihrerseits wieder das 1919 gegründete „Schwarze Kreuz“ mit der Umsetzung dieser Vereinbarung. Das deutschösterreichische Kriegsgefangenen- und Zivilinterniertenamt wies im Juni 1919 jene Gemeinden, in denen sich vormals Gefangenenlager befanden, an, die Pflege der Lagerfriedhofe zu übernehmen. In Ungarn durfte eine ähnliche Regelung getroffen worden sein. Die Gemeinde Frauenkirchen betraute 1919 Martin Wetschka mit der Pflege des Friedhofes. Nach seinen Angaben wurden von ihm bis April 1927 einige Erhaltungsmaf3nahmen am Friedhof durchgeführt. So wurden unter anderen die Drahteinzäunung und die Betonpfeiler rund um den Friedhof erneuert, das Gittertor der Kapelle durch ein Holztor ersetzt, die Kapelle geweissnet und deren eingeschossene Fensterscheiben ersetzt, die Graber mit Schotter und Sand aufgefüIIt, Grassamen aufgebracht und Kastanienbaume rund um die Anlage gepflanzt. Ob Martin Wetschka für seine Arbeiten auch bezahlt wurde, ist nicht bekannt, doch konnte er 6-10 q Heu, das am Friedhof geschnitten wurde, zu seinem Nutzen verwenden.

Zu den Aufgaben des Verwalters gehörte auch die Aufsicht über den Lagerfriedhof. Der Friedhof, im Volksmund „Serbenfriedhof“ genannt, war in den 20er-Jahren für die Ortsbevölkerung ein beliebtes Ausflugsziel. Um Verwüstungen vorzubeugen, ließ deshalb der Verwalter an Sonn- und Feiertagen sowie an schulfreien Tagen am Friedhof einen Wachter aufstellen; 1930 trat ein allgemeines Betretungsverbot für Spaziergänger in Kraft. Serbische Delegationen fanden sich beinahe jährlich auf dem Lagerfriedhof ein, um mit einem Geistlichen eine Gedenkfeier abzuhalten. Diesen Feierlichkeiten wohnten auch Vertreter der Gemeinde und im Juni 1926 der Bundeskanzler und der Landeshauptmann bei.

 

Auch italienische Delegationen trafen immer wieder auf dem Lagerfriedhof in Frauenkirchen ein. Eine besondere Gedenkfeier fand am 28. August 1927 statt. Dabei versammelten sich die Gemeinderate, die Freiwillige Feuerwehr, die örtlichen Vereine und die Schuljugend bei der Kirche und marschierten zum Lagerfriedhof, um dort Aufstellung zu nehmen. Zur selben Zeit trafen am Bahnhof Landesrat Thullner, Vertreter der Bezirkshauptmannschaft und eine militärische Abordnung aus Neusiedl am See ein. Diese wurden von Gemeindevertretern empfangen und mit Fuhrwerken vom Bahnhof zur Kirche gebracht, wo zu Ehren der Gefallenen aus Frauenkirchen ein Kranz niedergelegt wurde. Danach begaben sich die Ehrengaste zum Friedhof. Zur selben Zeit reisten eine italienische Delegation, ein Gesandter und ein Militärattaché mit Vertretern des „Schwarzen Kreuzes“ in zwei Autos an. Beim Eintreffen der italienischen Delegation am Friedhof spielte die Militärmusikkapelle aus Neusiedl am See die italienische Nationalhymne „marcis reale“. Das Programm der Gedenkfeier beinhaltete eine Feldmesse, die Einweihung und Übergabe der italienischen Gedenktafel, die Niederlegung von Kränzen und Ansprachen der Ehrengaste. Vor der Verabschiedung der Ehrengaste gab es noch einen kleinen Umtrunk und ein „bescheidenes Essen“.

 

1933 gab es auch Plane, den Friedhof teilweise aufzulassen. Die italienische Regierung äußerte den Wunsch, die 50 am Friedhof beerdigten italienischen Soldaten zu exhumieren und die Toten in ein Zentralgrab nach Wien zu bringen. Als Verwalter Martin Wetschka dieses Unternehmen für nicht durchführbar erklärte, da die Graber nicht gekennzeichnet waren, ließ die italienische Regierung von ihrem Vorhaben wieder ab.

 

Auch während des Nationalsozialismus fanden am Lagerfriedhof sogenannte „Heldenehrungen" statt. Anlässlich des St. Veittages am 3. Juli 1939 wurde der neue Verwalter Ing. Franz Sander aus Tadten - der vorherige Verwalter war Mitglied der Vaterlandischen Front und wurde somit vom Regime enthoben - angewiesen, eine Feier zu organisieren und Graber, Friedhof bzw. Wege in bester Ordnung herzustellen. Für die Feier wurde ein Kranz mit Hakenkreuzschleife angefertigt, den zwei Männer in Uniformen niederlegten.

 

Der Friedhof nach 1945

 

Über etwaige Verwüstungen während des Krieges oder bei Kriegsende ist nichts bekannt. Die ersten Aufzeichnungen nach 1945 finden sich 1954, als die Regierung Jugoslawiens ein Denkmal in Form eines Obelisken, das bereits 1930 geplant war, am Friedhof errichtete.