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giovedì 30 settembre 2021

Stralcio Diario di Prigonia a Celle, Germania

 

i11 marzo [1918]. Dopo una lunga interruzione riprendo le mie memorie. Io non so spiegarmi questa mia apatia in qualunque cosa. Salvo le due ore che io studio tedesco con un mio amico, passo la giornata in un ozio tale che mi fa sempre pensare ai giorni felici e mi rende più impossibile la vita che passo in prigionia. Del resto tutti passano il tempo in ozio, seguendo il consiglio degli ufficiali medici che dicono che è nocivo alla salute studiare e non mangiare. Ed è vero: io provo una tale depressione e debolezza dopo qualche ora d’applicazione. Il nostro mangiare diventa peggiore di giorno in giorno e non si sa come si andrà a finire con tale trattamento. Dei giorni ci danno acqua calda assoluta, altre volte qualche granello d’orzo: gli altri almeno ricevono numerosi pacchi dalla famiglia: io invece debbo contentarmi della poca brodaglia che questi infami tedeschi ci danno. E tutto ciò perché i miei genitori non mi mandano le cibarie richieste. In questi giorni, cioè dal 22 febbraio all’11 marzo sono morti altri 4 aspiranti e cinque soldati: tutti di polmonite, dicono i medici tedeschi, e perché non in seguito alla denutrizione? Intanto il locale ospedale si va popolando, e la tubercolosi va facendo strage.

 

Questa pagina di diario proviene dal taccuino di un ufficiale dell’esercito italiano detenuto nel campo tedesco di prigionia di Celle, nei pressi di Hannover, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di un diario anonimo conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno, scritto da un ufficiale che cadde prigioniero delle truppe tedesche durante la disfatta di Caporetto. Fu deportato prima al campo di Rastatt e poi a Celle-lager. Il 24 gennaio 1918, dopo circa tre mesi di prigionia decise di iniziare a scrivere “quotidianamente e coscientemente” le sue memorie. Le sue pagine di diario, sebbene scarne di informazioni anagrafiche, permettono di tratteggiare alcuni dei caratteri della sua personalità e della sua indole. Era un ufficiale del primo reggimento dei granatieri, un corpo scelto per il quale erano richiesti particolari requisiti di prestanza fisica.

 

CelklePrima di cadere prigioniero aveva combattuto la guerra di trincea a capo di ventisette uomini e aveva comandato una sezione di “pistole mitragliatrici”. Dei suoi soldati scrive: avevo 27 uomini, tutti veterani della guerra, e ai quali la patria deve serbare eterna gratitudine per il contegno eroico da essi sempre dimostrato. Dai suoi scritti trapelano patriottismo, convinzione e una radicata adesione alla causa bellica. Era un uomo istruito, colto che durante la detenzione in Germania si dedicò allo studio del tedesco probabilmente per comprendere meglio la realtà che lo circondava; quotidianamente leggeva i giornali che arrivavano nel campo, commentando nel suo taccuino gli avvenimenti bellici.

 

Frequentava assiduamente le attività culturali che venivano organizzate nel campo. Infatti, per reagire a quella che è stata definita la “malattia del reticolato”, ovvero la forte apatia e l’abbattimento provocati dalla reclusione e dalla malnutrizione, gli ufficiali prigionieri unirono competenze e conoscenze e organizzarono corsi, conferenze, dibattiti e, ancora, realizzarono rappresentazioni teatrali, concerti e tornei. Attività con le quali cercavano di resistere alla monotonia dei giorni e all’abbrutimento della reclusione ritrovando la propria identità. Un episodio in particolare permette di rivolgere lo sguardo anche nella sfera intima, negli affetti della vita da civile dell’autore del diario. Nei primi giorni di aprile del 1918, racconta di aver fatto cadere nella fogna il portafoglio nel quale conservava preziosi ricordi: un’immagine di una madonnina miracolosa, la foto di una ragazza amata, il tesserino universitario e una sua foto di quando aveva sedici anni. Piccoli frammenti che raccontano una vita tra studio e amori giovanili.

 

il-campo-di-celle-fotoIl tema ricorrente in ogni pagina del diario è il problema della scarsa alimentazione; l’ufficiale dei granatieri si nutrì per circa un anno essenzialmente con pane e zuppe di carote e patate. Quotidianamente riporta annotazioni sulla carenza di cibo e ancor più sulla mancanza di aiuti dall’esterno. Il fondamentale studio di Giovanna Procacci sui prigionieri italiani della prima guerra mondiale ha dimostrato come l’esperienza della prigionia in Germania per i militari italiani sia stata particolarmente dura. Secondo gli accordi internazionali ratificati con la convenzione dell’Aja, il governo dello stato che catturava i prigionieri doveva garantire a costoro vitto, alloggio, vestiario in quantità e qualità non inferiore a quanto veniva consegnato alle truppe. In realtà gli stati belligeranti si trovarono del tutto impreparati a rispettare il regolamento che rimase generalmente disatteso; in particolare la Germania dichiarò di non poter rispettare le convenzioni in seguito al blocco economico imposto dagli stati dell’Intesa. Di fronte a questa situazione, Francia, Gran Bretagna, e in seguito gli Stati Uniti iniziarono a spedire aiuti collettivi, come viveri, vestiario e medicinali, a spese dello Stato ai propri militari prigionieri. Al contrario il governo italiano decise di non mettere in atto alcun provvedimento di pubblico soccorso: non inviò alcun aiuto statale e semplicemente non proibì alle singole famiglie l’invio di pacchi privati.

 

In un secondo momento, per le pressioni internazionali il governo decise di inviare aiuti collettivi organizzati dalla Croce Rossa ma solo agli ufficiali e dietro il pagamento di denaro da parte dei familiari. Un passaggio del diario parla chiaramente di questo problema: Oggi è venuta la Commissione governativa: il nostro generale [Pisani], comandante del campo, ha parlato con il generale tedesco. Si sono intrattenuti sul trattamento di noi ufficiali prigionieri e dietro le lagnanze del nostro comando ha risposto: – Rivolgetevi al vostro governo e fate sì che egli faccia quello che fa il governo Inglese e Francese: noi non possiamo far di più.- In altre parole voleva dire: se morite di fame non è colpa del nostro governo ma del governo italiano. Per l’ufficiale anonimo la prigionia fu particolarmente difficile perché, per un motivo ignoto, non ricevette mai pacchi di generi alimentari dalla famiglia. Il suo diario-documento è quindi emblematico delle vessazioni subite dai prigionieri italiani, probabilmente anche per una retorica che li vedeva come i perdenti di Caporetto.

domenica 19 settembre 2021

Musica nei Campi di Concentramento della Prima Guerra Mondiale


 Il Campo di Boldogassoni/ Frauenkirken  presenta una foto, con l’orchestra del campo seduta lungo il muro di una baracca in Muraturra

venerdì 10 settembre 2021

Prigionia austriaca in Italia. Casale in Altamura

 CAMPO DI CONCENTRAMENTO DEI PRIGIONIERI AUSTRO-UNGARICI E TEDESCHI IN CASALE DI ALTAMURA DURANTE LA GRANDE GUERRA 

di RAFFAELLA BONGERMINO 

Chi può narrare i simpatici episodi che in tali circostanze avvenivano dappertutto? Qui erano signori che abbracciavano i baldi soldati accorrenti all’invito della Patria; là erano dame che offrivano pacchetti di sigari, scatole di confetti e cioccolatini, mazzi di fiori; le madri baciavano commosse i loro figli e li esortavano ad essere forti; i vecchi incoraggiavano i giovani a fare il loro dovere per la grandezza d’Italia; i bambini offrivano bandierine tricolori, i sacerdoti figure di santi e medaglie benedette. Quando i treni partivano, ornati di festoni di quercia e di alloro, scoppiavano battimani, s’inneggiava alla guerra, si mandavano baci e benedizioni a quei prodi. Dopo le folle entusiaste rientravano in città e facevano altre dimostrazioni1 . E’ quanto riferisce Saverio La Sorsa a pochi anni dalla fine della Grande Guerra nel suo volume edito nel 1928. La gioia pervase l’intera Nazione ed anche le città pugliesi avvertirono fremiti irresistibili di amor patrio, convinte ormai della necessità della guerra e della bellezza del sacrificio a salvare le terre irredente che ancora subivano la dominazione straniera. La conferenza che destò maggiore entusiasmo e lasciò un ricordo più memorabile, fu quella che il 12 febbraio nel teatro Piccinni, gremitissimo di cittadini di ogni classe, tenne Cesare Battisti, deputato al Parlamento di Trento, il quale, diceva il “Corriere delle Puglie”,” ha l’anima tutta piena d’ardore patriottico e lo spirito dedicato al culto profondo del sentimento d’italianità. …Altra conferenza, fremente di patriottismo, tenne il Gran Martire il giorno seguente a Corato dinanzi ad un’immensa folla, trascinata a deliranti applausi dalla sua parola fascinatrice 

Le diatribe che sorgevano tra sostenitori interventisti e pacifisti continuarono vivacissime fino all’entrata in guerra dell’Italia. Gli opposti orientamenti si placarono, anche se rimasero latenti negli animi, comparendo con la sconfitta di Caporetto. E’ interessante la lettura di un telegramma del Questore al Prefetto di Bari con cui si conferma per il successivo 21 febbraio lo svolgimento in Bari, di due conferenze, che si svolgeranno una, a cura del deputato Guido Marangoni sul tema “Contro la guerra e la fame”, alle ore 11 presso la Sala Italia in Corso Cavour e la seconda, alla stessa ora, nel teatro Piccinni, a cura del pubblicista Tommaso Monicelli, che sosterrà la necessità dell’intervento dell’Italia nel conflitto. Il Questore, precisa che la conferenza del Monicelli sarà privata e si potrà accedere nel teatro solo con biglietti invito . 

  La Sorsa pubblica anche nel suo volume i giudizi delle autorità militari inneggianti al valore dei soldati pugliesi nelle vicende belliche, fornitigli a pochi anni di distanza dalla fine della Grande Guerra da articoli di giornali dell’epoca o dalla viva voce dei comandanti. Merita menzione Pietro Badoglio, Capo di Stato maggiore per il 139° Fanteria Brigata Bari; Paolo Thaon di Revel, Grande Ammiraglio per le Brigate dell’Apulia Fidelis; Giuseppe Vaccari, Comandante della gloriosa Brigata Barletta4 . I Bollettini del Comando Supremo nell’esaltare la tenacia dei soldati pugliesi li descrivono incrollabili nella difesa, irruenti nell’attacco. Sono stati questi valori a caratterizzarli e a permettere loro di catturare migliaia di prigionieri austro-ungarici e tedeschi nelle battaglie più drammatiche e cruenti della Grande Guerra. Se la Battaglia di Caporetto portò l’Italia allo sbando, la disfatta non è da attribuire alla fellonia del soldato italiano verso la propria Patria. Le cause della sconfitta disastrosa, la più grave nella storia dell’esercito italiano vanno ricercate nel fallimento della logistica di guerra che non è il tema della mia relazione. Ma è importante nominare i ragazzi del ’99, meravigliosi combattenti che ridiedero dignità, decoro e valore al soldato italiano. Fino agli anni ’80 del secolo scorso, la storiografia aveva prestato attenzione in particolare agli aspetti diplomatici e militari inerenti alla Grande Guerra, trascurando la rappresentazione epica e drammatica degli eventi bellici. In seguito gli storici hanno acquisito informazioni e documentazioni sul ruolo delle donne, sull’economia di guerra, sui profughi e sui prigionieri. La Convenzione dell’Aia che svolse i lavori tra il giugno e l’ottobre del 1907 volle modificare alcune parti dell’originale Convenzione dell’Aia del 1899 e aggiungerne altre. Fu firmata il 18 ottobre 1907 ed entrò in vigore il 26 gennaio 1910. Sanciva la rinuncia dell’uso dei proiettili esplosivi, quella di lanciare bombe dai palloni aerostatici e l’uso delle armi chimiche. Tutte queste norme umanitarie non furono osservate nel conflitto mondiale da nessuna nazione. La Convenzione fu firmata prima che iniziasse la Grande Guerra e stabilisce sussistenza e rispetto verso i prigionieri. L’Italia purtroppo disattende le regole perché al loro rientro gli ex prigionieri italiani dei tedeschi ed austro-ungarici subiscono l’umiliazione di un nuovo internamento nella propria terra, come si attesta in Puglia ed in Emilia. La fame che avevano patito nei campi nemici è la stessa che patiscono in Patria diventando preda di malattie e di morte. Molti di loro sono stati considerati dispersi dopo un fatto d’armi o considerati probabilmente morti nel tal fatto d’armi. Invece è da considerare anche l’ipotesi che siano stati fatti prigionieri, poi rilasciati e rientrati in Patria dopo l’Armistizio e del loro decesso non sia stata informata la famiglia

5 . 5 F. MONTELLA, 1918 prigionieri italiani in Emilia, Edizioni Il Fiorino, Modena 2008.