La figura del prigioniero di guerra e dell’internato.
Michele Cuccaro
Sono trascorsi quasi 18 anni dal quel 1991 che ha segnato la dissoluzione del sistema mondiale della “guerra fredda” , un crollo che "non ha solo prodotto incertezza politica, instabilità, caos e guerra civile in un'area enorme del pianeta ma ha anche distrutto il sistema che aveva stabilizzato le relazioni internazionali negli ultimi 40 anni" [1] Con la fine del "secolo breve" si pone il problema di un panorama geopolitico instabile che ha visto incrementare in maniera geometrica il numero e la qualità delle missioni internazionali. Per dare una idea del nuovo impegno richiesto basti pensare “delle 75 missioni militari cui il nostro Paese ha preso parte della conclusione del secondo conflitto mondiale, ben 56 trovano collocazione nel periodo 1990-2001” [2]
In un tale contesto ha sempre più assunto rilevanza l’applicabilità dl Diritto Internazionale Umanitario sia per la tutela delle persone coinvolte che per quel che riguarda in particolare l’applicazione nello specifico dello “jus in bello”. Infatti la tipologia degli interventi militari al di fuori dei confini nazionali è profondamente cambiata sia sotto l’aspetto della gestione politico militare che soprattutto per quel che attiene al suo inquadramento giuridico nel rispetto del diritto internazionale. Il sistema multilaterale, anche con le difficoltà di funzionamento che ha mostrato, ha comunque definito la fine dello strumento della guerra come metodo di risoluzione delle controversie accantonando il principio dell’autotutela a favore del riconoscimento del principio della “legittima difesa” singola o collettiva ma pur sempre nell’ambito degli istituti sanciti dalla Carta ONU. Muovendo appunto le mosse dai principi contenuti nella Carta ONU che, in gran parte, sono ormai riconosciuti come norme consuetudinarie e quindi generali, l’intervento militare con finalità umanitarie ha assunto una valenza fino ad ora sconosciuta. Dalle operazioni di prima e seconda generazione, in cui l’intervento umanitario è svolto con il consenso dello Stato ospite, si è giunti alla definizione di missioni di terza generazione in cui si sono estese le funzioni di intervento venendo a comprendere anche l’uso della forza al fine di ristabilire la pace internazionale minacciata. Interventi di questo tipo si svolgono sotto l’egida del disposto di cui al Capo VII della Carta ONU laddove il Consiglio di Sicurezza opera nella sostanza un collegamento tra la minaccia alla pace e la situazione di emergenza umanitaria che si riscontra anche all’interno di uno Stato.
A fronte di quanto sopra si sono succeduti nel tempo una serie di interventi di “Peace Enforcing” che hanno visto le Forze Armate dei Paesi che hanno aderito alla richiesta di intervento in situazioni di crisi, coinvolte in tutta una serie di operazioni operando all’interno di situazioni locali di conflitto armato vero e proprio. La particolarità della tipologie degli interventi di cui trattasi è altresì riscontrabile nella circostanza che nel caso pur essendo spesso coinvolto in azioni di guerra, e dovendo attuare tutta una serie di accorgimenti tattici previsti per i casi del genere, il Paese che esprime le forze impiegate non si trova in uno “stato di guerra” deliberato secondo le procedure del secolo scorso.
Né d’altronde potrebbe essere diversamente perché nel caso ciò che qualifica la diversità è il fine ultimo dell’intervento armato che non è quello di “autotutela” intesa come risoluzione di una controversia in cui si ha un interesse concreto ed immediato, bensì nel più generale interesse al mantenimento della stabilità internazionale e, nello specifico altresì, e molto spesso, nella interposizione per porre termine a catastrofi umanitarie.[3]
Scopo del presente scritto è quello di sollevare una riflessione sull’opportunità, e la necessità, di vagliare con attenzione il corpus normativo internazionale delle Convenzioni di Ginevra (1949) e dei protocolli addizionali (1977) laddove si intenda meditare sulle sfide di un nuovo approccio che potrebbe prevedere l’utilizzo di determinate categorie codificate quali ad esempio quella del prigioniero e dell’internato, al fine di poter gestire le crisi internazionali con il minor costo in termini di sacrifici umani sia locali che dei Paesi in azione.
Invero il sistema delle tutele e della regolamentazione “in caso di guerra dichiarata o di qualsiasi altro conflitto armato” [4], è applicabile, concezione ormai pacifica, a qualsiasi tipo di conflitto laddove si intenda per questo i limiti dell’azione militare e l’applicazione del sistema di tutele previsto da parte degli Stati coinvolti. In questo ambito la cosi detta clausola Martens[5] inserita nei protocolli aggiuntivi ed ormai considerata norma consuetudinaria garantisce quello che dovrebbe essere uno standard minimo di salvaguardia per la popolazione ed i belligeranti così come peraltro è comunemente acclarato secondo l’interpretazione dell’art.3 delle Convenzioni. A tal proposito è da osservare che il II protocollo del 1977 definisce altresì il “conflitto armato non internazionale”. Il sistema nel tempo ha quindi operato una serie di aggiustamenti e modifiche tali da ricomprendere al suo interno il susseguirsi delle tipologie di guerra così come conosciute nel secolo appena passato.
Tutto ciò si riferisce al sistema delle tutele in cui lo “jus in bello” si rapporta come ordinamento alla comunità costituita dagli Stati cui pertanto si riferiscono essenzialmente le situazioni giuridiche soggettive delle Convenzioni. Da ciò discende che la salvaguardia delle persone assume un profilo preciso laddove è intenzionalmente strutturata alla apposizione di limiti all'uso della forza da parte di uno Stato e a protezione della popolazione (elemento costitutivo dello Stato).
Ed ecco la questione. Tutto il sistema delle convenzioni che, è applicabile ed applicato anche per le così dette “Peace Support operation (PSO)”, è strutturato sulla partecipazione al conflitto di uno Stato, o di Gruppi armati organizzati e quindi poggia su una definizione riconoscibile e riconosciuta delle parti coinvolte. Orbene se questo è vero per gli Stati che intervengono nelle PSO a seguito appunto di una minaccia alla pace, altrettanto non si può dire della situazione locale nella quale si interviene e dove la situazione è molto meno netta. Le PSO si svolgono al di fuori del contesto culturale occidentale che ha dato vita al sistema delle tutele e mettono quindi in crisi le categorie fondamentali su cui sono basate le Convenzioni di Ginevra tra cui quella della legittimazione reciproca dei due contendenti. Entrando in crisi il sistema di riferimento “con la realtà dei conflitti di oggi, è sempre più difficile distinguere tra nemico e criminale (corsivo mio) fino al punto di generare dubbi e contraddizioni a proposito del regime giuridico da applicare ai soggetti ostili catturati: su di essi probabilmente insistono entrambi gli status sia quello di criminale sia quello di combattente (seppur non legittimo), al quale l’ordinamento riconosce lo standard minimo umanitario (art.3 Convenzioni)” [6]
In tale contesto il corpus normativo delle Convenzioni e dei protocolli aggiuntivi seppur di fondamentale importanza per i principi fondamentali enucleabili e punto di riferimento inderogabile per l’azione degli Stati[7] necessita di essere implementato con la previsione dei nuovi contesti e quindi sull’utilizzo di strumenti già previsti (es: Prigioniero di guerra ed internato), in un nuovo contesto che comporti la gestione di situazioni non prevedibili né previste nel secolo scorso.
La condizione giuridica degli internati è disciplinata dalla IV Convenzione partendo dalla definizione delle condizioni tassative che giustificano il ricorso a questa misura di sicurezza nei confronti dei cittadini stranieri residenti sul proprio territorio, (artt. 41, 42, 43, 68 e 78), tale che l’internamento può essere ordinati, nei confronti delle persone protette, soltanto se la sicurezza dello Stato lo rende assolutamente necessario.
Ancora, se è vero che le norme prevedono l’internamento solo in specifiche circostanze, e si parla di cittadini stranieri sul proprio territorio, come ci si può comportare qualora si operi in territori di stati terzi e sorga la opportunità di procedere ad un internamento al fine di dividere la popolazione da elementi di guerriglia ostili? L’azione sarebbe, allo stato delle cose, di per se illegittima secondo il diritto internazionale, ma potrebbe essere risolutiva per un contenimento della “vis bellica” nel conflitto locale, riducendo i costi umani soprattutto tra la popolazione civile che è poi uno degli obiettivi primari della PSO. Va da se che tale l’azione sarebbe quella da prevedere mentre il trattamento riservato ai prigionieri ed internati sarebbe quello garantito dal corpus giuridico delle convenzioni.
Da quanto sopra emerge chiaramente come le disposizioni presuppongono uno scenario militare ampiamente superato dai fatti e non rispondono a domande di primaria importanza.
In conclusione, il corpus normativo posto a tutela di principi fondamentali di “umanità” durante l’esercizio di una “vis bellica” è stato posto a metà del secolo scorso sulla scorta delle esperienze maturate nel corso del XIX secolo e delle due guerre mondiali. Questo corpus rappresenta quanto di più avanzato in tema di protezione sia dei belligeranti che delle parti coinvolte. Ma la questione è proprio qui, nelle parti coinvolte che nel tempo sono cambiate sia nello specifico che nei ruoli che assumono. Occorre a questo punto una nuova convergenza internazionale che faccia fare un ulteriore passo avanti al sistema delle tutele laddove si ponga la questione dell’individuazione delle parti coinvolte nei nuovi conflitti di PSO, ma anche e soprattutto una profonda analisi sui metodi e sugli obiettivi connaturato al nuovo tipo di operazioni al di fuori dei confini nazionali. La questione prima o poi dovrà essere affrontata anche facendo riferimento all’impiego della forza in un contesto ad alta pericolosità dove a fronte di una parte riconosciuta, spesso sfumate e non riconoscibili sono le altre parti, non necessariamente rappresentanti di uno Stato o parte di esso, che quindi non sentono di doversi confrontare con il sistema delle convenzioni di Ginevra.
Si tratta di una questione che necessariamente deve avere il tempo di sedimentarsi laddove l’applicazione del sistema di tutele codificato si scontra con la necessità di adeguare gli strumenti previsti alle nuove realtà, nuove realtà che in quanto tali devono ancora trovare una collocazione all’interno di un sistema di tutele che non riconosce la situazione.
Deve peraltro constatarsi che i tempi non sembrano ancora maturi, l’esigenza di intervenire ancora non si è adeguatamente strutturata per poter essere oggetto di dibattito, ma certamente dovrà emergere per dare una adeguata soluzione alla questione da parte dell’occidente codificatore che dovrà confrontarsi con la realtà di nuove regole e di un nuovo codice di condotta.
[1] "Il Secolo breve" di Eric J.Hobsbawm - Rizzoli Luglio 1999
[2] “Il ruolo del Parlamento e l’assetto dei rapporti fra Camere e Governo nella gestione dei conflitti armati”, Prof.Paolo Carnevale Roma 12 aprile 2002
[3] “la lotta volta a controllare o anche eliminare, tali organizzazioni o reti (inclusi piccoli gruppi di terroristi), è profondamente diversa dalle grandi operazioni belliche, ma va anche notato che in questo modo si vengono a confondere le azioni di due differenti tipi di forze armate. Una di queste forze – che possiamo indicare come i soldati – è diretta contro altre forze armate con l’obiettivo di sconfiggerle. L’altra – che indicheremo come la polizia – ha il fine di mantenere o ristabilire il grado di legge e ordine pubblico richiesto all’interno di una entità politica esistente, in genere uno Stato. La vittoria, che non ha necessariamente una connotazione morale, è l’obiettivo della prima forza; portare i trasgressori della legge di fronte alla giustizia – cosa cha ha invece una connotazione morale – è lo scopo della seconda.” E. J. Hobsbawnm “Imperialismi” Rizzoli 2007.
[4] Art.2 convenzioni di Ginevra
[5] "nei casi non compresi nelle disposizioni adottate, le popolazioni civili e i belligeranti restano sotto la salvaguardia e l'imperio dei principi del diritto delle genti, quali risultano dagli usi stabiliti fra nazioni civili, dalle leggi dell'umanità e dalle esigenze della pubblica coscienza".
[6] “Guerra e Costituzione”, Dr. Giuseppe Severini Consiglio di Stato e Consigliere del Ministro della Difesa. Roma 6.12.2005 CEMISS
[7] parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia l'8 luglio 1996, nel quale si afferma che i principi fondamentali del Diritto Internazionale Umanitario costituiscono "principi inviolabili del diritto internazionale consuetudinario".
[8] Art.13 III Convenzione di Ginevra
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