i11 marzo [1918]. Dopo
una lunga interruzione riprendo le mie memorie. Io non so spiegarmi questa mia
apatia in qualunque cosa. Salvo le due ore che io studio tedesco con un mio
amico, passo la giornata in un ozio tale che mi fa sempre pensare ai giorni felici
e mi rende più impossibile la vita che passo in prigionia. Del resto tutti
passano il tempo in ozio, seguendo il consiglio degli ufficiali medici che
dicono che è nocivo alla salute studiare e non mangiare. Ed è vero: io provo
una tale depressione e debolezza dopo qualche ora d’applicazione. Il nostro
mangiare diventa peggiore di giorno in giorno e non si sa come si andrà a
finire con tale trattamento. Dei giorni ci danno acqua calda assoluta, altre
volte qualche granello d’orzo: gli altri almeno ricevono numerosi pacchi dalla
famiglia: io invece debbo contentarmi della poca brodaglia che questi infami
tedeschi ci danno. E tutto ciò perché i miei genitori non mi mandano le cibarie
richieste. In questi giorni, cioè dal 22 febbraio all’11 marzo sono morti altri
4 aspiranti e cinque soldati: tutti di polmonite, dicono i medici tedeschi, e
perché non in seguito alla denutrizione? Intanto il locale ospedale si va
popolando, e la tubercolosi va facendo strage.
Questa pagina di diario proviene dal taccuino di un
ufficiale dell’esercito italiano detenuto nel campo tedesco di prigionia di
Celle, nei pressi di Hannover, durante la prima guerra mondiale. Si tratta di
un diario anonimo conservato presso l’archivio dell’Istituto Storico della
Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno, scritto da un ufficiale
che cadde prigioniero delle truppe tedesche durante la disfatta di Caporetto.
Fu deportato prima al campo di Rastatt e poi a Celle-lager. Il 24 gennaio 1918,
dopo circa tre mesi di prigionia decise di iniziare a scrivere “quotidianamente
e coscientemente” le sue memorie. Le sue pagine di diario, sebbene scarne di
informazioni anagrafiche, permettono di tratteggiare alcuni dei caratteri della
sua personalità e della sua indole. Era un ufficiale del primo reggimento dei
granatieri, un corpo scelto per il quale erano richiesti particolari requisiti
di prestanza fisica.
CelklePrima di cadere prigioniero aveva combattuto la guerra
di trincea a capo di ventisette uomini e aveva comandato una sezione di “pistole
mitragliatrici”. Dei suoi soldati scrive: avevo 27 uomini, tutti veterani della
guerra, e ai quali la patria deve serbare eterna gratitudine per il contegno
eroico da essi sempre dimostrato. Dai suoi scritti trapelano patriottismo,
convinzione e una radicata adesione alla causa bellica. Era un uomo istruito,
colto che durante la detenzione in Germania si dedicò allo studio del tedesco
probabilmente per comprendere meglio la realtà che lo circondava;
quotidianamente leggeva i giornali che arrivavano nel campo, commentando nel
suo taccuino gli avvenimenti bellici.
Frequentava assiduamente le attività culturali che venivano
organizzate nel campo. Infatti, per reagire a quella che è stata definita la
“malattia del reticolato”, ovvero la forte apatia e l’abbattimento provocati
dalla reclusione e dalla malnutrizione, gli ufficiali prigionieri unirono
competenze e conoscenze e organizzarono corsi, conferenze, dibattiti e, ancora,
realizzarono rappresentazioni teatrali, concerti e tornei. Attività con le
quali cercavano di resistere alla monotonia dei giorni e all’abbrutimento della
reclusione ritrovando la propria identità. Un episodio in particolare permette
di rivolgere lo sguardo anche nella sfera intima, negli affetti della vita da
civile dell’autore del diario. Nei primi giorni di aprile del 1918, racconta di
aver fatto cadere nella fogna il portafoglio nel quale conservava preziosi
ricordi: un’immagine di una madonnina miracolosa, la foto di una ragazza amata,
il tesserino universitario e una sua foto di quando aveva sedici anni. Piccoli
frammenti che raccontano una vita tra studio e amori giovanili.
il-campo-di-celle-fotoIl tema ricorrente in ogni pagina del
diario è il problema della scarsa alimentazione; l’ufficiale dei granatieri si
nutrì per circa un anno essenzialmente con pane e zuppe di carote e patate.
Quotidianamente riporta annotazioni sulla carenza di cibo e ancor più sulla
mancanza di aiuti dall’esterno. Il fondamentale studio di Giovanna Procacci sui
prigionieri italiani della prima guerra mondiale ha dimostrato come
l’esperienza della prigionia in Germania per i militari italiani sia stata
particolarmente dura. Secondo gli accordi internazionali ratificati con la
convenzione dell’Aja, il governo dello stato che catturava i prigionieri doveva
garantire a costoro vitto, alloggio, vestiario in quantità e qualità non
inferiore a quanto veniva consegnato alle truppe. In realtà gli stati
belligeranti si trovarono del tutto impreparati a rispettare il regolamento che
rimase generalmente disatteso; in particolare la Germania dichiarò di non poter
rispettare le convenzioni in seguito al blocco economico imposto dagli stati
dell’Intesa. Di fronte a questa situazione, Francia, Gran Bretagna, e in
seguito gli Stati Uniti iniziarono a spedire aiuti collettivi, come viveri,
vestiario e medicinali, a spese dello Stato ai propri militari prigionieri. Al
contrario il governo italiano decise di non mettere in atto alcun provvedimento
di pubblico soccorso: non inviò alcun aiuto statale e semplicemente non proibì
alle singole famiglie l’invio di pacchi privati.
In un secondo momento, per le pressioni internazionali il
governo decise di inviare aiuti collettivi organizzati dalla Croce Rossa ma
solo agli ufficiali e dietro il pagamento di denaro da parte dei familiari. Un
passaggio del diario parla chiaramente di questo problema: Oggi è venuta la
Commissione governativa: il nostro generale [Pisani], comandante del campo, ha
parlato con il generale tedesco. Si sono intrattenuti sul trattamento di noi
ufficiali prigionieri e dietro le lagnanze del nostro comando ha risposto: –
Rivolgetevi al vostro governo e fate sì che egli faccia quello che fa il
governo Inglese e Francese: noi non possiamo far di più.- In altre parole
voleva dire: se morite di fame non è colpa del nostro governo ma del governo
italiano. Per l’ufficiale anonimo la prigionia fu particolarmente difficile
perché, per un motivo ignoto, non ricevette mai pacchi di generi alimentari
dalla famiglia. Il suo diario-documento è quindi emblematico delle vessazioni subite
dai prigionieri italiani, probabilmente anche per una retorica che li vedeva
come i perdenti di Caporetto.