La
prigionia di guerra costituisce un'esperienza che ha toccato, all'indomani
della prima e della seconda guerra mondiale, oltre due milioni di soldati italiani.
Per ragioni complesse, recondite e spesso inconfessabili, di questa esperienza
di massa ci si è voluti molto spesso dimenticare: All'indomani della vittoria
di Vittorio Veneto, nel tripudio della stessa, di tutto si parlò meno degli
oltre 600.000 soldati italiani (di cui 100.000 morti) prigionieri.
Nella
monumentale bibliografia dedicata al primo conflitto mondiale, da parte non
solo italiana, le opere inerenti completamente alla prigionia si contano sulla
punta delle dita. Si possono citare, ad esempio, di Carlo Emilio Gadda
"Giornale di Guerra e di Prigionia" (Einaudi Torino, 1965) e
"Taccuino di Caporetto: Dia di Guerra e Prigionia" (Garzanti, Milano
1991). Pubblicazioni sicuramente dovute alla fama dell'Autore, più che ad un
reale interesse per la materia.
La
stessa Relazione ufficiale dello Stato Maggiore dell'Esercito - Ufficio
Storico, dedica alla prigionia pagine interessanti, ma non approfondite. Le
altre opere, tutte edite prima del 1940, sono in tino minore, dimesso, quasi
che i prigionieri non avessero il coraggio o l'ardire di raccontare le loro
vicende e disavventure.
Occorre
rilevare che il fascismo non aveva alcuna interesse a parlare di vicende e
situazioni che andavano contro la sua retorica ufficiale.
Stesso
atteggiamento all'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale. In
pieno disastro morale e materiale, nella problematica e ferita società italiana
della metà degli anni quaranta, pochi avevano interesse e voglia di
interessarsi dei problemi e delle vicende della prigionia militare italiana: In
più vi era l'orrore della scoperta dell'altra tragedia consimile, quella
dell'Internamento in Germania, inserita in quell'enorme vergogna che è
l'Olocausto e lo sterminio di massa. Anche nel secondo dopoguerra, quindi, in
fretta si cercò di dimenticare le vicende della prigionia.
Eppure,
la vicenda della prigionia interessa oltre due milioni di soldati italiani, una
massa di uomini che dovrebbero attirare l'interesse di studiosi e storici. A
fronte di ciò occorre rilevare che nei paesi anglosassoni e in Francia il
prigioniero di guerra è tenuto nella massima considerazione. In pratica esso è
considerato un soldato sfortunato, che però nella difficile vita di cattività
ha contribuito a servire il suo Paese. Basti ricordare il film "Il
ponte sul fiume Kway" per comprendere questo assioma.
In
Italia, invece, nulla di tutto questo. L'origine di tale atteggiamento può
essere trovata nella formazione di uno stato Unitario Italiano.
Chiamato
questo Stato alla difficilissima prova della prima guerra mondiale, Che è bene
dirlo fino alla vigilia di Caporetto si hanno oltre 70.000 disertori, molte
difficoltà di amalgama e di senso civico vennero a nudo. Una di queste era la
profonda sfiducia (per lo più ingiustificata) che i vertici politico-militari
ed i comandanti nutrivano verso i loro soldati. Nel dover affrontare le dure
prove del combattimento, questi comandanti erano ossessionati dall'idea che i
soldati, di fronte al pericolo, disertassero o si arrendessero troppo
facilmente. Nell'accezione generale dei nostri comandanti della prima guerra
mondiale, i prigionieri erano considerati dei vili, dei pessimi soldati, quasi
assimilabili ai disertori.
Nonostante
azioni di alto valore, si ebbero 600.000 prigionieri di cui almeno 300.000 per
effetto della ritirata al Piave: Fu una prigionia dura, ma nell'alveo delle
norme internazionali allora in vigore, marcata a fondo da una fame crescente,
ciò non fu voluto dagli austro-ungarici detentori dei nostri prigionieri, ma
dalla carenza dei rifornimenti. La fame, che fu patita in misura uguale dalla
stessa popolazione austriaca, fu, per i soldati prigionieri, disperata. Il
risultato di questa situazione fu l'altissima mortalità: oltre 100.000 uomini
morirono dietro i reticolati. E' una cifra, come tutte quelle riferite alla
prigionia della prima guerra mondiale, tenuta per anni accuratamente nascosta.
Questa cifra non entra nemmeno nel calcolo generale delle perdite italiane del
conflitto. Infatti tutte le fonti portarono solo il numero dei morti italiani
(oltre 600.000) avuti in combattimento e per cause di combattimento. Per
sottolineare il diverso approccio, rispetto a noi italiani, che gli
anglo-francesi avevano verso i prigionieri, occorre dire che le Autorità sia di
Francia che di Gran Bretagna organizzavano un regolare invio di treni carichi
di viveri per i loro prigionieri in Germania. Il risultato fu che su un totale
di 600.000 prigionieri anglo-francesi (numero uguale a quello degli italiani) i
loro morti furono "solo" 20.000.
Le
Autorità italiane, sia politiche che militari, rifiutarono categoricamente di
organizzare l'invio di viveri, attraverso la Svizzera, per i nostri
prigionieri: Si era quasi soddisfatti che il nemico lasciasse morire di fame i
nostri soldati: che tale voce si spargesse tra le trincee, affinchè tutti i
combattenti si convincessero che era poco conveniente arrendersi o darsi
prigionieri. I risultati, come detto, furono 100.000 morti (un prigioniero su
sei), mentre la mortalità fu minore fra gli ufficiali (500 su 19.500), in quanto
potevano ricevere pacchi dalle famiglie e non erano obbligati al lavoro. Un'altra
considerazione: 600.000 furono gli internati militari italiani nel periodo'43 -
'45, e tutti conosciamo le tragiche e inumane condizioni in cui furono tenuti.
Ebbene tra loro si ebbero in totale circa 50.000 morti, ma molti di meno, di
quelli della prima guerra mondiale. Tutto questo era causato dalla convinzione delle
nostre Autorità che la prigionia fosse una vergogna, un disonore, una viltà, se
non un vero e proprio tradimento. Ed il vate, colui che fu il primo
propagandista della grande guerra, quel Gabriele D'Annunzio che nel bene e nel
male, tanto incise nel nostro tessuto sociale, chiamava i prigionieri,
condannandoli al disprezzo, "i soldati italiani sventurati e svergognati",
una genia "che aveva peccato contro la Patria". Questa idea si è
tanto bene radicata nel nostro paese, che è ben facile comprendere il
disinteresse con cui furono trattati i prigionieri italiani della prima e della
seconda guerra mondiale. Non può sorprendere pertanto la scarsezza degli
studi sulla prigionia e sulle vicende ,
spesso drammatiche, ad essa collegate . del resto tutto questo è stato
alimentato dall'ultima "scelta" dei protagonisti: il prigioniero non
vuole raccontare la sua esperienza. Quale udienza ed ascolto, peraltro, può
avere chi era considerato un peccatore contro la Patria.
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