In questo
episodio, scelto a caso, uno fra i mille che si possono riscontrare le
contraddizioni di base che permangono nella storia di tutta l'umanità quando si
pongono a confronto le esigenze della pura giustizia con quelle del diritto che
si appoggia alla forza.
E mentre la
coscienza dell'uomo sia pure nella sua infinita gamma di gradazioni e nell'estrema
labilità delle sue manifestazioni percepisce l'esigenza di una giustizia che
sia al di sopra dei conflitti, d'altra parte il corso violento della storia
tende ad annullarla con la facile proliferazione delle giustificazioni che
tutto il mondo è pronto ad offrire a chi prevale.
Al di sopra però
di queste contraddizioni resta un fatto importantissimo, e cioè che nessuno
vuole essere chiamato ingiusto, tantomeno il vincitore.
Ne consegue
perciò tutto il travaglio di cui è partecipe l'umanità intera che ha per fine
la formulazione e l'adozione di concetti di giustizia che non sia unicamente
quelli dettati dalla forza e camuffati dall'ipocrisia del vincitore. È
attraverso questo travaglio che venne formandosi un'etica che ha messo in crisi
le equazioni vincitore-diritto ed ha determinato tutta una serie di
comportamenti che hanno reso meno duri i rapporti tra le genti.
Fu così che in tutti i tempi e in tutti i luoghi si trovano delle norme che regolano il trattamento di colui che è l'espressione tipica del vinto, cioè dell'uomo senza diritti, il prigioniero di guerra, il “captivo”, il cui nome trasformandosi nella nostra lingua in “cattivo” venne assumendo tutta quella gamma di significati infamanti che sono l'opposto degli appellativi riservati al vincitore.
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