La Prigionia di Guerra al
Femminile
Massimo Coltrinari
Nella recente esperienza della missione in Irak, si
affacciano all’orizzonte del nostro impegno militare, oltre a tutto quello che
può essere operare in un teatro fuori area Nato e su un terreno diverso da
quello nazionale, due novità: l’impiego in zona d’operazioni, ancorché a fini
di pace, di personale femminile e quindi possibilità che questo personale possa
subire una delle conseguenze dell’impiego in un conflitto, ovvero cadere in
potere dell’avversario, cioè cadere prigioniero.
Le avvisaglie di queste novità le abbiamo sotto gli
occhi tutti i giorni: personale non militare femminile sono state prigioniere
per un perizio relativamente breve di
“avversari”. Si fa riferimento alla vicenda delle due Serene e della
giornalista Giuliana Sgrena. Da queste esperienze si ha la base per affrontare,
almeno teoricamente, un argomento che spesso è ignorato e non affrontato per
gli uomini, mentre per le donne non è nemmeno ipotizzato. La prigionia militare
femminile è un argomento nuovo, non affrontato e soprattutto non pertinente, in
“re ipsa”, come tutto quello che attiene alla prigionia di guerra stessa.
Il reclutamento del personale femminile nelle forze
Armate di recente nel nostro paese, dopo decenni di opposizione è stato accolto come una grande conquista, un
raggiungimento di livelli “come altre nazioni all’avanguardia”, ad altre
attestazioni di autoesaltazione in molti casi fuori luogo. In realtà l’Italia
ha avuto sempre scarsissime risorse da destinare allo strumento militare,
l’unica risorsa che ha avuto in modo largo è stato il personale: il tasso di
nascita in Italia è stato sempre altro e gli “uomini” sono mai mancati. Il
problema è sempre stato come vestirli, armarli e nutrirli nelle forze armate in
modo adeguato e in relazione alle necessità operative. E in presenza di scarse
risorse, vestire e mantenere un uomo costa di meno che vestire emanate un uomo
e una donna. Ma mai vi è stata una carenza di “materia prima” sotto il profilo
del personale. Con i tassi di natalità da “nazione civilizzata” ovvero bassi e
piatti, questa risorsa è venuta meno; in più si è scatenato un movimento di cui propri non si sentiva il bisogno.
Quindi queste due componenti ,anche in presenza di una riduzione di personale,
ha fatto si che oggi, ritenendoci nazione “civile”, per dare pari opportunità
alla donna, eccoci ad avere nelle Forze Armate uomini e donne, con il relativo
aggravio di costi.
Ma non è solo questo. Sotto la divisa non si fanno
distinzioni un soldato è un soldato, non vi è il soldato e la “soldata”: quando
la bomba cade non fa distinzioni. E si deve ragionare in termini di soldato,
sia esso di sesso maschile sia di sesso femminile. Questo occorre sempre
ricordarlo a chi, donna, indossa una divisa, qualunque essa sia. Non vi sono
trattamenti speciali e le conseguenze, se impreparati, possono essere
devastanti. Oggi,in Italia, vedendo tante giovani che si pavoneggio nelle loro
uniformi, che civettano con questi aspetti militarizzanti, un richiamo a quello
che c’è dietro l’angolo, il rovescio della medaglia può essere utile per
evitare traumi e tragedie future.
Quindi un soldato, di sesso femminile, in linea
anche in missioni di pace, può cadere in potere dell’”avversario” ovvero
prigioniero. E qui occorre affrontare il tema e prepararvisi.
Non vi sono precedenti nel nostro paesi di prigionia
militare femminile, ne tantomeno studi e riferimenti affinché questo tema sia
sviscerato come dovrebbe. Ma vi sono esperienze analoghe, di Internamento in
guerra e di Internamento di pace. Tralasciando l’Internamento di pace un buon
riferimento può rappresentare l’Internamento di guerra, ovvero quella componente
dell’Internamento in Germania che ha interessato, per motivi raziali, politici
ed etnici un buon numero di donne. Inoltre vi è una esperienza similare alla
prigionia femminile in quella delle donne entrate nella resistenza, entrate
nella formazioni combattenti partigiane cadute prigioniere dei nazifascisti ed
avviate nei lager in Germania.
Da queste esperienze si possono avere delle
indicazioni e degli approfondimenti per il presente; nel contempo si affronta
un tema della guerra di liberazione, quello dell’Internamento femminile, che
tra l’oblio generale dell’Internamento in genere è il più dimenticato e il più
incompreso.
In articolo
per “Rassegna”, la rivista della Associazione Nazionale Reduci dalla
Prigionia
(ANRP) ho fatto cenni all’Internamento Femminile, un
internamento, quello in Germania, dopo l’8 settembre 1943 nel nostro Paese ancora incide nella nostra coscienza nazionale, anche se la percezione di questa
tragedia è solo sotto l’ottica maschile. Questo si verifica sia riguardo agli
oppressori ( stato hitleriano , singoli nazisti) sia riguardo alle azioni ed
alle reazioni delle vittime dell’internamento.
Queste dinamiche sono state sempre presentate e
studiate come se l’internamento interessasse solo gli uomini, relegando
l’internamento a cui furono soggette le donne a profili marginali, quasi
insignificanti, in una visione subalterna, nel substrato, forse anche
inconscio, che la guerra e le sue conseguenze sono “cose da uomini”. In una
proiezione abbastanza reale, questo approccio si ha per le situazioni di
impiego del nostro personale femminile. Tutto è pensato in un ottica maschile,
quasi che chi non è maschio non è ammesso. Ora difficile fare degli scenari in
cui nostro personale femminile sia caduto prigioniero in mano “avversaria” e
questa non è la rivista più indicata per approfondire questi argomenti. Andiamo
quindi in parafrasi su quanto scritto per l’ANRP e vediamo a che cosa sono
andati incontro le donne, quelle che sono entrate nelle formazioni combattenti,
per avere un punto di riferimento e avere quindi degli orientamenti. Nel
contempo, come detto, portiamo all’attenzione un aspetto della nostra storia
caduto nell’oblio
Nello stato nazista, si scriveva nell’articolo della ANRP, la concezione
ideologia era stata approntata primariamente e forse esclusivamente da uomini,
facendo appello alla durezza, alla spietatezza, alla mortificazione e negazione
di tutto quello che poteva anche
apparire dolce, tenero e comprensivo. L’ideologia nazista quindi portava una
profonda avversione per il sesso femminile, dividendo le donne in due parti: quelle
appartenente ad una categoria superiore, e perciò in chiave di purezza della
razza, di “alto valore riproduttivo” e quelle di categoria inferiore, a cui
assegnavano in quanto tali, un “valore riproduttivo nullo”, ricorrendo in modo
sistematico alla sterilizzazione, all’aborto, e poi anche alla loro
soppressione.
Appartenenti alla seconda categoria, coloro che
erano internate, per motivi politici, religiosi, etnici ecc., in un lager avevano già contro tutto un
apparato ideologico, a prescindere se ebrea, resistente, oppositrice, o ogni
altra categoria, che infieriva contro la sua identità femminile. Un
( concetto: si cade in mano a un apparato fortemente
maschilista, duro, che non è tenero che non ammette debolezze)
Non è nazista, ma militarista, quindi di molto
gradini piùin basso in questa scala ma sempre difficiel
Appena entrata nel lager si attacca il suo aspetto
esteriore, levandogli i vestiti, ogni oggetto personale, dandogli indumenti
standardizzati ( i camicioni a righe), rasando le parti intime, tagliando a
zero i capelli, eliminando la possibilità di pulizia e cura di se; si
calpestano costumi radicati, come i denudamenti e le attese, nude, al chiuso e
all’aperto, spesso sotto gli occhi di tutti.
Il trattamento che le donne ricevano nel lager e
quindi più pesante di quello inflitto all’uomo. L’atmosfera è impegnata perennemente di paura, di
umiliazioni, di privazioni, di fatiche che in breve incidono nella sfera prima psichica poi
biologica.Prima manifestazione di questo è la scomparsa del ciclo mestruale.
Nel prosieguo si straziano i valori della maternità e del materno: i figli
vengono separati dalle madri oppure le madri li vedono morire nelle camere a
gasa; le donne incinte al loro arrivo abortiscono o vengo fatte abortire oppure
i neonati appena nati non hanno alcuna
possibilità di sopravvivenza o addirittura uccisi. I bambini vagano per il
campo ma è noto a tutti che hanno pochissime possibilità di sopravvivenza.
Tutto questo non è ipotizzabile per una esperienza
di prigionia di guerra. Non vi sono le premesse, ma occorre prendere in esame
che
A questa esperienza la donna in quanto tale vi
arriva impreparata, non come i loro coetanei maschili che gli obblighi militari
di leva e l’addestramento alla guerra hanno in parte preparato. Per le
resistenti, per coloro che salgono in montagna o entrano nei nuclei cittadini,
pur nella consapevolezza di correre un rischio anche serio, non si arriva mai a
prevenire quella che poi potrebbe essere l’esperienza di un lager tedesco. Le
stesse donne ebree, che la storia e la tradizione e la luna sequenza di
persecuzioni, arrivano impreparate alla esperienza del lager.
Ecco il motivo chiave di queste note: a queste
esperienze occorre arrivare preparate. La divisa non è solo luccichio di
bottoni, di stelle strisce gradi e altro. Quando si dice che è pesante vuol
dire che questo……………addestrameto alle situazioni difficili
Le forme di resistenza e le strategie di
sopravvivenza opposte al trattamento nel Lager, sono varie, la più diffusa è la
speranza ed il sogno del ritorno, ovvero ad immaginare un immediato futuro in
cui la liberazione rappresenta un momento culminate, fondamentale. Proprio
questa strategia che per molte significò la volontà e la voglia di sopravvivere
all’orrore del presente, si rilevo poi un terribile dramma.
La liberazione fa si che il popolo delle internate e
delle deportate almeno visivamente scompare, ma rimangono le profonde ferite.
Nel momento in cui le Internate provano a raccontare
a relazionarsi emergono tutte le difficoltà e tutte le incomprensioni di chi
non ha passato l’esperienza del lager.
Il problema del sesso. Nell’Internamento in germania
questo è uno dei punti più delicati e difficili da trattare
Le donne, per
lo più giovani, perché le più anziane non potevano sopravvivere e quindi non
sono tornate, erano state catturate da uomini ed internate da uomini: il corto
circuito tra internamento femminile e stupro è quasi inevitabile; non si vuole
nemmeno approfondire se vi furono cedimenti o complicità nella violenza, e tutto
rimane a livello di sospetti, sottintesi e tutta la vicenda sprofonda in forme
di disconoscimento. Quando poi usciranno libri come “la case delle
bambole” e film anche di un ceto valore,
come il “portiere di notte” l’eterno dolore femminile del lager sarà esposto ad
una nuova esacerbazione. Mentre per l’uomo uscito dal lager incide il pensiero
“perché proprio io sono sopravissuto” e non l’amico, il conoscente o la persona
sconosciuta, alimentando sensi di colpa infinti, nella donna oltre a questo,
impalpabile aleggia la mai detta accusa “ tu sei sopravissuta perché sei andata
a letto con un tedesco”, alimentando ancora più devastanti sensi di colpa e
sposso impossibilitando una ricostruzione psichica e morale.
Perchè sei andata soldato: una scelta come un'altra
e quindi non vi sono le accuse date alle Internate che agirono solo su base
strettamente volontaria
A questa incomprensione generalizzate volta
all’Internamento[1] si
deve le particolari resistenze che le Internate hanno affrontato per
relazionarsi con chi è rimasto. Prime fra tutte le Internate per motivi
politici. Le accuse nei loro confronti sono pesanti e contraddittorie: da una
parte, anche se velatamente, si rimprovera loro di essersi andate a cercare i
guai, interessandosi di guerra e politica, cose che da sempre sono di stretta
pertinenza degli uomini. Se la scelta di andare a combattere e di opporsi è
fatta al seguito di un uomo,sia esso padre, fratello, marito, amante, amico si
rimprovera loro di non essere state autonome nella scelta; se invece si è
scelto autonomamente di opporsi ai tedeschi, subendo il lager, allora si
rimprovera di aver lasciato ed abbandonato i compiti femminili.
Il reinserimento nella vita lasciata, al ritorno, il
momento tanto sognato, è spesso fonte diu ulteriori traumi: chi è stato
deportato, internato al ritorno non riconosce i luoghi lasciati, le persone,
sia materialmente che psicologicamente; chi vede ritornare il suo caro non lo
riconosce per come si presenta nel fisico e nella mente, troppo devastante è
stata l’esperienza. Da qui quel lento avvicinarsi l’un l’altro che solo a
prezzo di ulteriori sacrifici darà risultati.
Molte altre le paure e le incomprensioni del
ritorno, da quella di sapere se si potevano meno avere figli e se si, se questi
erano sani, nella riserva mentale di essere state inconsapevolmente soggette
attraverso la nutrizione a sistemi di sterilizzazione, a quella che l’impronta
di queste piaghe si trasmette alle nuove generazioni, soprattutto per via
inconscia ed ad altre ancora.
Questa esperienza non può rimanere, come tutta
l’esperienza del lager in Germania, confinata alla generazione che l’ha subita.
Anche l’esperienza dell’Internamento al femminile deve essere posta alla
attenzione delle generazioni presenti. E posta oltre che come memoria e di
rispetto per chi ha subito tanto male, come elemento per guidare ed affrontare
il presente, per prevenire e per correggere i mali che la nostra società genera
a piè sospinto. L’esperienza del lager al femminile in Germana deve essere più
approfondita nel filone di comprendere come un essere “debole” inteso non come
“essere donna”, o “femminile” o debolezza morale, ma debolezza di chi, come
scrive Anna Maria Buzzone, è debole di fronte alla brutalità dei perdenti è da
sempre perdente e proprio per questo, nel fallimento umano di tutti i programmi
che poggiano sulla potenza, ha in sé risorse non ancora utilizzate di
liberazione e di salvezza.
( febbraio 2010)
[1] Sulla complessa questione
della realtà dei bordelli in molti lager, della possibilità che molte internate
abbiamo avuto traumi sessuali, e della conseguente voglia di rappresentazioni
per lo più falsanti di questi fenomeni, e soprattutto delle fantasia che il
tema scatena anche in certe componenti della cinematografia e della comunicazione
in genere, vds:
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