Sulle vere origini
degli Arditi
La
presente ricostruzione delle origini del fenomeno degli Arditi ha tratto
stimolo da una notizia di cronaca piuttosto recente: la ricorrenza dell’istituzione
dei Riparti d’Assalto[1],
quest’anno, è stata funestata da un atto vandalico che, se da un lato ha
destato scalpore, dall’altro ha indirettamente contribuito ad accrescere la
confusione in merito all’esatta identità di questi Combattenti. La discussione
che è sorta intorno a tali deplorevoli gesti, al di là dello sdegno, non è
infatti andata oltre nozioni storiche di
superficie, senza indagare più a fondo circa sia le ragioni sottese a tale bravata, sia – soprattutto - la vera
origine dei Riparti.
Un
breve riepilogo su quanto accaduto a fine luglio 2022: la targa commemorativa
dell’istituzione[2]
posta a Sdricca di Manzano è stata frantumata e i muri del Monumento della
Federazione Nazionale Arditi d’Italia, sito a Capriva,
sono stati imbrattati da scritte in vernice rossa. Tali manifestazioni di
dissenso ideologico – peraltro unanimemente condannate per la manifesta impropria
modalità di espressione - hanno rappresentato il punto culminante di un crescendo di tensioni venutosi a creare
(per l’ambiguità che aleggiava intorno a scelte inerenti alla celebrazione della
ricorrenza) fra alcune forze politiche locali e gli organizzatori della
commemorazione.
Risulta
curiosa (e, ai fini di contribuire a chiarire le motivazioni circa quanto
accaduto, forsanche indicativa) la coincidenza fra data di istituzione dei
Riparti d’Assalto e genetliaco di Benito Mussolini: il giorno è lo stesso, 29
luglio.
Appare
palese che si tratta di pura casualità (il capo del Fascismo nacque nel 1883,
trentaquattro anni prima che i Riparti venissero istituiti). A volte, però, si
tende a sottostimare che il regime fece propria buona parte della tradizione più gloriosa della guerra senza andare troppo per il sottile[3]: durante
l’intero ventennio le celebrazioni della ricorrenza dell’istituzione degli
Arditi si trovarono quindi a coincidere con il compleanno del Duce, data
significativa in un contesto teso ad enfatizzare il culto della persona del
Capo[4].
Forse
le recenti tensioni ideologiche sono state amplificate, seppur inconsapevolmente, dall’eco dei fasti legati
a tale data polisemantica (sedimentata nella
memoria collettiva): questo intreccio di concause, probabilmente, ha sospinto
pochi sconsiderati a far d’ogni erba un fascio, increspando per
un certo tempo la bonaccia della cronaca locale tipica del periodo estivo.
Come
anticipato, la ragione storica alla
base di tale reazione incivile a tensioni
da risolversi in altra sede e con altri mezzi è da ricercarsi proprio nel
Fascismo che, per fornire di fondamenta salde
la propria repentina nonché violenta affermazione, fece proprio – mitizzandolo[5] - il
patrimonio di eroismo della Grande Guerra, Arditi in primis[6].
Del
valore militare della Grande Guerra giunto ai giorni nostri serba memoria
concreta soprattutto la toponomastica: circa le figure dei Comandanti della vittoria (e quindi fuori discussione: se la figura del generale Cadorna – in una prospettiva
rivelatasi coriacea di fronte all’analisi approfondita della verità storica -
continua ad essere capro espiatorio delle durezze della guerra[7], quella
del generale Capello è addirittura colpita da una damnatio memoriae capace di rimuoverne ogni traccia e non solo
dalla toponomastica) si può affermare che furono le stesse enfatizzate, seppure
con fini strumentali tutt’altro che storici, dal Fascismo.
Tale
eredità gravosa ha tacitamente contribuito
a circondare il ricordo (e, di conserva, le ricorrenze) di figure e di fatti
d’arme relativi alla Prima guerra mondiale di un manto di retorica
disfunzionale alla costruzione di una memoria storica condivisa, capace di
influire indirettamente sulla percezione del presente[8].
Gli
Arditi appartengono al patrimonio morale e tecnico della Grande Guerra e a tale
contesto richiedono di essere ricondotti, liberi da strumentalizzazioni
politiche le quali, nel tempo, si sono inspessite in misura tale da costituire addirittura
un filtro capace di alterare la
verità dei fatti, contribuendo ad una percezione fondamentalmente distorta
della realtà.
Una
volta riconosciuta l’azione di siffatto filtro,
sarà interessante ripercorrere l’iter compiuto
dagli Arditi per poterlo restituire (seppure in modo essenziale) nella sua
complessità, distinguendone il compito prettamente militare dall’aura non
sempre adamantina da cui la fama di tali Combattenti è tuttora circondata.
Lo
stesso termine ‘ardito’[9] rimanda in primis al coraggio, ma anche
all’assetto spregiudicato di chi arrischia troppo: il denominatore comune che
lega le due accezioni è riconducibile al concetto di ‘sprezzo del pericolo’,
dote encomiabile in ambito bellico (e pertanto ricorrente fra le motivazioni di
molte Medaglie al Valore).
Nel
margine di coesistenza fra i concetti di ‘coraggio’ e ‘azzardo’ si colloca
l’origine degli Arditi: le singole figure rispecchiarono, in diversa misura,
entrambi gli aspetti, dando luogo ad aree dove si può tuttora annidare legittimamente
un sospetto di ambiguità. Nell’ambito delle discipline psicologiche, è noto che
una percentuale - seppur assai esigua - di persone risulta incapace della ben
minima empatia di fronte alla vista del dolore altrui. Nemmeno arretra di
fronte alla possibilità di infliggere dolore, in assenza di percezione delle
conseguenze gravi del proprio gesto. Non è escluso che tale profilo
(considerato socialmente pericoloso in tempo di pace), nel contesto bellico
contrassegnato da esigenze urgenti, sia confluito facilmente nella categoria
degli ardimentosi: «guerra, guerra/
all’austriaco invasore/ sono Ardito, Ardito e fiero/ con la bomba e col pugnale
guai per l’orrido straniero/ che mi attende e che mi assal!»[10].
Nella
eterogenea composizione delle Fiamme Nere[11] è
compresente anche il versante diametralmente opposto, espressione di chi decise
di dedicarsi integralmente al bene della Patria, incanalando principalmente nel
coraggio e nel sacrificio di sé l’ardore necessario a sì temibili imprese: «Se
vuoi trovar l’Arcangelo da fante travestito,/ ricercalo a Manzano e troverai
l’ardito!»[12].
Fra gli Arditi figurarono infatti personalità di uno spessore morale non
comune: valga d’esempio la figura del pluridecorato Umberto Visetti il cui spericolato percorso
esistenziale e militare attraversa le due guerre per poi confluire nella sfera
religiosa, dove, abbandonato il secolo, diventerà Frate (missionario) Agostino
di Cristo Re. Anche Antonio Mugetti (Padre Angelico) può vantare diverse
Medaglie al Valore, combattendo proprio nella Brigata Lambro a cui – come si
vedrà - molto dovette l’istituzione vera e propria dei Riparti d’Assalto[13].
Una
volta considerate le tendenze contrassegnate da polarità opposta, si può
tornare ad analizzare la psicologia dell’Ardito sotto una luce meno estrema e
lo si farà partendo dalla testimonianza del generale bersagliere Eugenio De
Rossi in una rara descrizione dell’alterazione a cui è soggetta la psiche del
Combattente valoroso in momenti di estrema tensione:
Domande
angosciose che contribuivano a farmi un quadro assai fosco della situazione [il
riferimento è all’attacco al Merzly nel giugno 1915]. Ma a buon punto il mio naturale [corsivo non presente nel
testo] prese il sopravvento. I molti se, i molti ma, non mancano mai per
sconsigliare un attacco a chi non ha la ferma volontà di aggredire, e scacciai
quelle nebbie. I preparativi per l’azione furono fatti dall’altro mio io, che
aveva sostituito subitamente il suo sosia tentennante. Credo non essere il solo
che abbia notato lo sdoppiamento della propria individualità in circostanze più
o meno gravi della vita. Non sono spiritista, non ho mai preso parte a sedute
spiritiche, sono piuttosto incline a credere che il fenomeno dello sdoppiamento
psichico spontaneo appartenga alla categoria degli ipnotici e, sempre, se dico
male i medici mi perdonino; il fatto è che nella mia esistenza lo sdoppiamento
si avverò. Come già dissi, quando generalmente il mio spirito era esaltato
oltre l’ordinario, l’incosciente che sonnecchia in noi si svegliava ed appariva
accanto al normale.[14]
La
particolareggiata testimonianza di De Rossi è mirata a confutare sul nascere le
obiezioni generiche circa l’impiego determinante (o, addirittura, risolutivo) di
sostanze stupefacenti in contesti bellici. Esiste una letteratura specifica
intorno all’argomento ma, nonostante ciò, è riduttivo ed antiscientifico escludere
la naturalità originaria dell’assetto
eroico.
Anche
nella vita civile si possono compiere atti straordinari in situazioni di
particolare eccezionalità ma ciò che per un civile rappresenta appunto
un’eccezione, per il Soldato costituisce il dovere: «[l]’onor militare, derivante dalla tradizione
e dell’elevatezza del sentimento nazionale, richiede come base l’onor civile,
ma di questo è una sublimazione; ciò che nella morale civile può esser
considerato come virtù rara ed eroismo, nella morale militare non rappresenta
che il semplice compimento di un dovere»[15], sostiene il generale
Capello.
Il generale De
Rossi, di fronte a pericolose ed incontrollate manifestazioni di esaltazione,
ricorda che «“l’eroismo non è un mestiere che si eserciti 24 ore al giorno e
365 giorni dell’anno. Gli eroi, in realtà, hanno solo dei lampi di eroismo che
esplodono all’improvviso, precipitandoli irresistibilmente in avventure
inattese. L’eroe, a considerarlo bene, è quasi sempre tale suo malgrado!”»[16].
Gli Arditi, per
impiegare l’espressione di De Rossi, si trovarono invece ad indossare
volontariamente l’abito mentale dell’eroismo pressoché 24 ore al giorno, anche
se non 365 giorni all’anno: tali sforzi al limite della resistenza umana
necessitavano infatti di adeguati tempi di recupero.
Questo assetto
richiese, al d là della prestanza fisica di partenza, condizioni di vita
adeguate allo scopo, per certi aspetti (inerenti sia al lavoro, sia al riposo) incommensurabili
con la sfibrante routine propria
della trincea.
Gli Arditi, anche
a causa di tali privilegi (già la
sottrazione dei migliori elementi finalizzata alla costituzione dei Riparti d’Assalto
non aveva suscitao acceso entusiasmo fra i Comandanti), non riscossero soverchie
simpatie[17].
In precedenza,
però, quando i Soldati arditi non potevano ancora formalmente fregiarsi
dell’appellativo, la loro presenza di supporto risultava particolarmente
gradita nelle prime linee: «erano tanto contenti i compagni nostri, perché
andavamo da una linea all’altra ed erano contenti che la Brigata Sassari fosse
presente perché la Brigata Sassari dava un senso di tranquillità e sicurezza»,
ricordava il generale Musinu, Comandante della leggendaria compagine[18]. I Valorosi, infatti,
erano impiegati inizialmente in compiti di particolare impegno capaci di
agevolare poi l’azione delle truppe (accrescendone così l’efficacia), con un
conseguente risparmio di vite umane.
Il
criterio che informò la selezione degli Arditi non poteva prescindere dalla
piena efficienza fisica, esaltata da doti atletiche notevoli. Tali qualità,
oltre a fornire un’offerta efficace
alla domanda che le istanze del
momento decretavano urgente, trovavano una cassa di risonanza amplissima sia
nelle fondamenta del Pensiero futurista, sia nella cultura sportiva che, repentinamente,
venne declinata ad esigenze belliche[19], a
partire dalla campagna di interventismo sostenuta da «La Gazzetta dello Sport».
Al
Lettore di oggi appare lapalissiano che le fatiche di guerra possano essere,
seppur solo in parte, alleggerite da una forma fisica in piena efficienza. Un
secolo fa, questo concetto non appariva affatto cosa scontata:
Alla
base d’ogni nostra attività (VI Battaglia dell’Isonzo) avevamo messo il più
virile e il più intenso sviluppo della educazione fisica, sotto forma di
violenti sports di guerra. Finalmente
si era capito (e ci voleva la guerra per capirlo) che la condizione prima per
essere un buon soldato, consiste nella robusta e vigorosa preparazione del
corpo; perché la guerra è, soprattutto, una enorme fatica, e, sul campo, si
combatte e si comanda bene, soltanto quando si è giocondamente sani e quando si
riesce a dominare i propri nervi. Quanta strada, anche qui, dal tempo dei
nostri primi lontani anni di carriera, quando, nei reggimenti, l’educazione
fisica era considerata come qualche cosa di accessorio al confronto della pura
istruzione tecnico – militare, e questa,
anziché essere, sopra tutto, un armonico e lieto addestramento del corpo e
dell’anima, intristiva nei cortili delle caserme o sulle ben spianate piazze
d’armi in un meccanismo secco e monotono, che non interessava seriamente
nessuno![20]
Alla
dimostrazione dell’efficacia delle azioni compiute da coloro che possono essere
considerati veri e propri pionieri dei Riparti d’Assalto seguì la
codificazione: la veste normativa che diede forma al fenomeno spontaneo degli Arditi costituisce la
fase conclusiva di processo mirato ad integrare tale efficace contributo
attraverso canoni definiti che ne permettano l’assimilazione sul piano
organizzativo e, di conserva, un impiego pienamente strutturato.
Dopo
aver considerato la presenza tra le file dell’Esercito avversario di Sturmtruppen di matrice germanica (Circolare
n. 6230 del Comando Supremo del 14 marzo 1917) i Riparti d’Assalto vengono
istituiti con la Circolare n. 111660 del 26 giugno 1917 a firma del Sottocapo
di Stato Maggiore, generale Porro, diretta ai Comandi delle Armate 1ª, 2ª, 3ª,
4ª e 6ª. «La 2ª Armata del generale Capello si dimostra la più sollecita a
mettere in pratica le richieste del Comando Supremo a causa dei risultati
positivi ottenuti in azione dai plotoni speciali della brigata Lambro e della
48ª Divisione».
Si
deve sempre allo stesso Francesco Saverio Grazioli, alla testa di tale valorosa
Brigata (ai tempi della conquista di Gorizia, dipendente dal VI Corpo d’Armata
comandato dal generale Capello), la descrizione della nascita di fatto degli Arditi ad un anno di
distanza dalla loro istituzione ufficiale:
Questi
nuclei muniti di armi automatiche leggerissime avrebbero dovuto trascinare la
intera massa, la quale, come tutte le troppo numerose collettività, è per sé
stessa pigra ed ha bisogno di gente spregiudicata e di temperamento acceso che,
in ogni affare grosso, dia il via e l’esempio della decisione.
Fu
per dar corpo a questa, davvero non peregrina ricetta di psicologia collettiva
[di cui il generale Capello rappresenta un pioniere a tutti gli effetti], che,
formai, fin da allora, scegliendo sul complesso della brigata, alcuni
plotoncini speciali, armati di pistola mitragliatrice (sole armi leggere di cui
allora potevamo disporre) e li feci addestrare dai più squilibrati e rompicollo
giovani ufficiali che trovai nel reggimento, esaltando fino all’estremo le
qualità di ardimento e sprezzo del pericolo, di cui quei ragazzi mostravano di
essere dotati.
Tutto
ciò avveniva nel giugno del 1916 e perciò assai prima che spuntassero quei plotoni arditi che generarono poi le truppe d’assalto di storica memoria, e a
cui tanto si dovette nelle giornate gloriose di Vittorio Veneto.[21]
Principalmente,
la vittoria di Gorizia si dovette alla preparazione alacre e puntuale posta in
essere dal Comando del VI Corpo d’Armata a cui fu propedeutica – ed essenziale
– un’azione di sgretolamento della spessa coltre di sfiducia e di scetticismo
che affliggeva l’intera compagine, dal Fante agli Alti Comandi[22].
L’istituzione
formale degli Arditi fu, nella sostanza, più legata alla dimostrazione palese
di efficacia della preparazione propedeutica alla conquista di Gorizia che
all’emulazione pedissequa delle Sturmtruppen.
L’allenamento
dello spirito offensivo che diede i suoi frutti nell’agosto del 1916, a ben
vedere, risale a tempi di molto precedenti:
Calcinato, 5 luglio 1915
Il generale
Capello, che comanda la nostra Divisione (25ª: Brigata Macerata e Brigata
Sassari) ha evidentemente una viva simpatia per Monte Nuvolo, piccola altura a
sud di Lonato. Ne ha fatto un innocuo ma permanente teatro di finta guerra: i
bianco – azzurri della Macerata contro i bianco – rossi della Sassari.[23]
La
damnatio memorie che ha colpito il
generale Capello si è ripercossa sulla chiarezza circa le vere origini degli
Arditi, diventati (e, soprattutto, rimasti) nell’immaginario collettivo espressione
del Fascismo: in tale protratta distorsione della verità storica è da cercarsi
il germe che sollecita e conduce ad azioni sconsiderate come quella menzionata
agli inizi.
Poche
righe rispetto alla vastità del tema: vuole essere questo solo un contributo
mirato a sgretolare la cortina di luoghi comuni stratificatisi nel tempo,
incuranti della veridicità delle proprie fondamenta, che rappresentano tuttora un
retaggio sottotraccia della retorica
fascista: contributo vieppiù necessario ad una cultura nazionale propensa ancora
oggi a vedere nella data fatidica del 24 ottobre l’immagine della sconfitta di
Caporetto piuttosto che la data d’inizio della Battaglia di Vittorio Veneto,
decisiva ai fini della conclusione della guerra, non solo italiana.
dott.ssa Maria Luisa Suprani Querzoli
[1] Sdricca di Manzano, 29 luglio
1917.
[2] La targa, posta a Sdricca,
risale al 1938 (cfr. T. Dissegna, Il
Comune di Manzano ritira il patrocinio: gli Arditi rimangono alla Sdricca,
in www.messaggeroveneto.geolocal.it, 31 luglio 2022).
[3] L’espressione, riferita alla
scarsa capacità di discernimento propria della gente, è dello stesso Mussolini (cfr. intervista di Enzo Saini ad
Ardengo Soffici in «Settimo Giorno», 26 marzo 1959, in D. Ascolano, Luigi Capello. Biografia militare e politica, Ravenna: Longo
Editore, 1999, p. 225). Circa l’assimilazione politico – culturale operata dal
Fascismo di alcune glorie celeberrime della guerra, spicca la figura del
maggiore Baracca: si dimenticarono le
simpatie repubblicane dell’Asso, palesi al punto da determinare – si disse -
l’assenza del Re ai suoi solenni funerali (cfr. F. Bandini, Il Piave mormorava. Milano: Longanesi,
1968, p.210). Sia il monumento di Domenico Rambelli dedicato all’eroico
Maggiore (inaugurato nel 1936), sia la raccolta rivisitata delle sue lettere (Memorie
di guerra aerea, Roma: Ardita, 1933) tradiscono la finalità di quella che,
a tutti gli effetti, fu un’operazione culturale con fini di propaganda
piuttosto palesi.
[4] Anche l’astrologia concorse al
mito: Mussolini era del Leone.
[5] Che il Fascismo fosse
interessato al mito e non alla storia divenne esplicito fin dal 1923, quando di
fronte allo studio esaustivo su Caporetto ad opera del colonnello Adriano
Alberti (Direttore dell’Ufficio Storico di Stato Maggiore) vennero opposte nette
resistenze. La ricostruzione storica dell’Alberti ha visto le stampe solo nel
2004.
[6] Risulta
esemplare la metamorfosi subita dalla canzone Giovinezza, nata come canto goliardico nel 1909, eletta in seguito
a inno degli Arditi e finita – letteralmente - sotto l’ala dell’aquila littoria. Oggi, tale canzone è bandita e
nemmeno risulta riproponibile nella sua versione originaria, tanto risulta
ancora forte l’eco di ricordi cupi di cui si è resa portatrice. Altro segno
distintivo degli Arditi approdato poi
al Fascismo è il fez, per non
accennare al motto A noi!,
inizialmente coniato dal maggiore
Freguglia (Com’è nato il motto “A noi!”,
in www.arditigrandeguerra.it).
[7] «Sono i nemici della guerra i
quali vedono in me la personificazione stessa della medesima» (lettera di Luigi
Cadorna a Ninetta, [s.l.] 2 luglio
1917, in L. Cadorna, Lettere famigliari,
(a cura di Raffaele Cadorna), Milano:
Mondadori, 1967, p.
208).
[8] «Il ricordo è un atto immaginativo il cui significato influenza la
valutazione che diamo del presente» (F. Fera, Storie che curano – Dialoghi.it, in www.yumpu.com). Tale asserzione, aderente all’indirizzo
dato alle scienze psicologiche da James Hillman, inerente al microcosmo
dell’individuo, può essere estesa al macrocosmo della Nazione.
[9] Cfr. voce ‘ardito’, Vocabolario
Treccani, www.treccani.it.
[10] Il brano della canzone è tratto Giovinezza primavera di bellezza. Le origini
del Canto degli Arditi, in www.arditigrandeguerra.it. Il sentimento di esaltazione
guerriera è in antitesi all’empatia provata da diversi Soldati nei riguardi dei
loro avversari con i quali condividevano – a breve distanza di spazio – gli
stessi forti disagi legati alla vita di trincea. Tale sentimento, seppur chiaramente
comprensibile sul piano umano, risultava di fortissimo nocumento allo spirito
offensivo necessario all’impegno bellico.
[11] Solitamente con l’espressione
‘Fiamme Nere’ si indicano gli Arditi. Erano altresì presenti le mostrine cremisi
presso i Bersaglieri e quelle verdi presso gli Alpini.
[12] L. Freguglia, XXVII Battaglione d’Assalto. Gli Eroi del
Montello (a cura di A. Mucelli), Bassano del Grappa: Itinera Progetti,
2017, p. 11.
[13] Cfr. ivi, documentazione
iconografica compresa fra le pp. 80 e 81 del volume. I nessi fra religione e
guerra sono indagati in J. Hilman, Un
terribile amore per la guerra, Milano: Adelphi Edizioni, 2005.
[14] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla
guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 281.
[15] L. Capello, Note di guerra, vol. I, Milano: Fratelli Treves Editori, 1921, p.
91.
[16] E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla
guerra, cit., p. 275.
[17] Anche gli Aviatori subirono sorte analoga: la lontananza dal fango
della trincea corrispondeva nella mentalità del Fante (circa la psicologia del
Fante cfr. A. Gatti, Caporetto. Dal
diario di guerra inedito (maggio – dicembre 1917) (a cura di A. Monticone),
Bologna: Il Mulino, 1964, pp. 65 – 66) ad uno status degno di invidia, sentimento immediato e, come tale, inconsapevole delle altissime percentuali
di rischio connesse a tali ambiti elitari.
[18] Generale Giuseppe Musinu
(Thiesi, 22 marzo 1891 – ivi, 4 aprile 1992). Il brano dell’intervista
televisiva rilasciata dal Generale in occasione dei suoi cento anni compare al
link https://youtu.be/o_ytrMoUU9A.
[19][19] Risulta indicativo, al pari di
una sintesi di tale declinazione, l’iter
compiuto dall’Aviazione: da sport per
eccentrici (guardato inizialmente con scetticismo ed estrema diffidenza) ad arma del futuro, nell’arco di pochissimi
anni.
[20] F. S. Grazioli, In guerra coi Fanti d’Italia, Roma: Libreria del Littorio,
1930, p. 60.
[21] Ivi, p. 66.
[22] Dell’azione propedeutica (morale
e pratica) necessaria alla vittoria
importante di Gorizia si trova ampia trattazione in Note di guerra (vol. I), memoria difensiva del generale Capello,
pubblicata pressoché a ridosso dell’uscita della Relazione della Commissione
d’inchiesta su Caporetto. La memoria del Generale confuta le accuse rivoltegli
da una Commissione – come divenne presto palese – non informata da criteri di
obiettività nel proprio operare. Anche il testo citato di Grazioli, seppur
scritto quando, per motivi politici, oramai Capello era caduto definitivamente
in disgrazia, si dimostra concorde con quanto sostenuto dal Generale in Note di guerra.
[23] G. Tommasi, Brigata Sassari. Note di guerra, Roma: Tipografia Sociale, 1925, p.
17. «E lo sa chi vi parla, avendo presenti
i ricordi che di Capello serbarono gli uomini della Brigata Sassari, per sua
volontà composta esclusivamente da sardi»
(A. Corona, Capello massone, in AA.VV., Luigi Capello. Un Militare nella storia d’Italia (a cura di Aldo A. Mola), Cuneo: Edizioni L’Arciere,
1987, p. 247).
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