Evoluzione
della esperienza di un prigioniero alleato
Un
australiano tra i partigiani biellesi
Malcolm R.
Webster
Mi arruolai nel giorno del mio diciannovesimo compleanno e lasciai l'Australia
per il Medio Oriente nel tardo 1940. Seguendo lo sfollamento delle truppe da
Creta, mi trovai sul cacciatorpediniere britannico "Hereward", che fu
colpito e poi affondato nello stretto di Kaso a causa di un bombardamento della
Luftwaffe tedesca il 29 maggio 1941. La nave venne abbandonata alle 6.45 del
mattino e dopo 5 ore in mare senza un giubbotto di salvataggio venni salvato da
una torpediniera della Marina italiana. Questa azione contro la "Hereward"
costò più di trecento vite, perse soprattutto per annegamento.L'azione di quel
giorno effettuata dai tedeschi contro il convoglio causò la perdita anche di
un'altra nave, l' "Imperial" e attacchi contro gli incrociatori
"Orion" e "Dido" ed ed al cacciatorpediniere
"Decoy". In tutto ci furono più di mille vittime. Noi, sopravvissuti
dell' "Hereward", salvati dai "mas" della Marina italiana
fummo portati a Scarpanto: molti erano nudi, altri scarsamente vestiti. Qui ci
fu dato cibo e acqua. Poi venimmo trasportati sul cacciatorpediniere della
Marina italiana "Francesco Crispi" a Rodi. Dopo circa tre settimane a
Rodi, dopo esserci ripresi da quella terribile esperienza, e piuttosto deboli
per le scarse razioni di cibo, fummo mandati all'isola di Leros, dove fummo
imbarcati sulla "Caleno", che salpò verso la Grecia e poi, via Corinto -
Patrasso, arrivò a Bari il 22 giugno 1941, il giorno in cui la Russia sovietica entrò in
guerra. Arrivati a Bari, fummo sottoposti ad una accoglienza molto ostile:
mentre marciavamo verso la stazione ferroviaria ci venivano lanciati bastoni e
pietre. Per fortuna le guardie italiane fecero un buon lavoro nel tenere sotto
controllo la
situazione. Dopo quasi tre settimane nel campo di sosta per
prigionieri di guerra a Capua, il 12 luglio 1941 venimmo inviati in treno a
Bolzano e avanzammo verso Prato Isarco, vicino al Passo del Brennero. ll campo
di Prato Isarco consisteva in una vecchia fabbrica di birra in disuso, in
edifici in legno molto polverosi adiacenti alla principale linea ferroviaria
che serviva le forze germaniche operanti nel Nord Africa. La vita e le
condizioni, sebbene piuttosto primitive, erano tollerabili, con sufficienti
razioni, aumentate dai pacchi di cibo che arrivavano tramite la Croce rossa internazionale
di Ginevra. Il campo di Prato Isarco fu evacuato il 25 ottobre 1941 e tutti i
prigionieri di guerra furono trasferiti in treno al campo di concentramento Pg
numero 57 a
Cividale, vicino a Udine.Il Pg 57 risultò essere un vero campo di prigionia,
efficiente, ben amministrato e strettamente controllato. Il campo, situato
sugli altopiani vicino a Caporetto, era esposto a forti venti ed a un freddo
estremo, da noi mai sperimentato in precedenza: quell'inverno la temperatura
toccò la punta record di 23°. ll vestiario insufficiente e inadatto era un
problema e aumentò il nostro disagio; quest'ultimo venne mitigato durante il
mese di marzo 1942 dall'arrivo dei pacchi con abiti personali provenienti
dall'Australia ed anche di alcune provviste tramite l'organizzazione della
Croce Rossa.Nel febbraio 1942 le razioni di cibo erano state inoltre drammaticamente
"tagliate" del 60 per cento ed anche i pacchi della Croce rossa erano
cessati.
Molti soffrirono di denutrizione, altri di "beri-beri", malattia
causata dalla mancanza di frutta e verdura, necessarie per mantenere nel corpo
il giusto livello di vitamina B. Molti prigionieri di guerra finirono
nell'ospedale di Udine, io compreso, perché mi ammalai di "beri-beri"
e di setticemia, a causa di una infezione al piede che richiese un intervento
chirurgico. Sebbene l'esistenza nel campo Pg 57 fosse dura e difficile, il
morale venne sostenuto da molte attività: concerti, dibattiti, lezioni, gare di
quiz, tornei a carte, e competizioni sportive di cricket, calcio e atletica fra
le squadre delle varie baracche. All'inizio del 1942 l'attività sportiva fu
tuttavia interrotta per alcune settimane dato il cibo insufficiente per
sostenere il corpo ad un livello accettabile.
L'aprile 1943 vide la spedizione dei prigionieri di guerra con il grado di
sergente ai campi di lavoro. Io, in un gruppo di cinquanta uomini fui mandato
al campo di lavoro numero 106 nella cascina Oschiena, vicino a Vercelli, a
lavorare nei campi di grano e nelle risaie. La sistemazione era sgradevole, le
baracche di legno erano piccole e sovrappopolate, mancava l'aria a causa delle
doppie porte tenute chiuse dalle guardie. Dato che questa situazione causò
molto disagio durante le notti calde, organizzammo in maniera tipica uno
sciopero e ci rifiutammo di lavorare. A poco a poco, le condizioni
migliorarono, la fornitura di cibo si poteva definire buona, con doppie razioni
rese più consistenti dai generi extra provenienti dalla fattoria. Tutto ciò
unitamente ai pacchi di cibo della Croce rossa, migliorò presto la nostra
condizione fisica. Progressivamente divenne chiaro che gli italiani erano
disillusi dal regime fascista e dall'alleanza con la Germania nazista. Vi
furono poi il ritiro dall'Africa settentrionale, lo sbarco alleato in Sicilia e
l'invasione dell'Italia a Salerno e Anzio; non fu una sorpresa il fatto che
l'armistizio venne chiesto agli Alleati dal maresciallo Badoglio, l'8 settembre
1943. Questo fu un giorno eccezionale, di grande gioia e festeggiamenti nella
cascina Oschiena, condiviso dai prigionieri di guerra, dalle guardie italiane e
dai contadini. Si avvertiva ovunque che finalmente il giogo fascista di
Mussolini era rotto per sempre. Era una grande sensazione di libertà e
sollievo. Tuttavia, insieme ai miei compatrioti, mi interessai subito
dell'attività delle truppe tedesche nella zona di Vercelli, in relazione alla
notizia secondo la quale tutti i campi dei prigionieri di guerra in Italia
venivano controllati e i reclusi mandati nei campi di concentramento in
Germania. Piuttosto che questo succedesse, decidemmo di abbandonare il campo di
lavoro e di prendere, ognuno, la propria strada; alcuni verso la Svizzera, altri a sud,
altri nascondendosi con l'aiuto degli agricoltori delle vicinanze nella vana
speranza che gli alleati sbarcassero a Genova e li liberassero. Io mi unii ad
altri quattro australiani, di cui uno venne poi giustiziato, insieme a quattro
compatrioti, tutti disarmati, nelle montagne del Vercellese settentrionale (i
corpi di questi cinque australiani furono esumati dagli abitanti del luogo
all'inizio del 1945 e messi in un cimitero italiano, vicino a Portula). Dopo
essere rimasti nascosti vicino alla cascina per sei settimane ed essere
mantenuti con cibo e denaro dalla popolazione, ci divenne chiaro che non ci
sarebbe stato uno sbarco alleato a Genova e che la lotta per estromettere le
truppe tedesche dall'Italia sarebbe stata ancora ardua e lunga. Non arrivò
neppure una guida, necessaria a condurci attraverso le Alpi in Svizzera,
nonostante le promesse e i contatti speranzosi. Prendemmo allora la decisione
di dirigerci a nord, anche senza aiuto, con la speranza che avremmo potuto
trovare una guida idonea in qualche paese di montagna. Ci dirigemmo quindi a
nord per alcuni giorni e alla fine raggiungemmo un rifugio in alta montagna
occupato da alcuni ex soldati italiani nascosti. Qui ci rendemmo conto che i
rischi per trovare il giusto passaggio in Svizzera in quel periodo dell'anno
erano troppo grandi. Dirigendoci allora verso le colline pedemontane, dove
faceva più caldo, io e i miei tre compagni venimmo a sapere che il passaggio in
Svizzera era possibile in un'altra zona, cosi tornammo indietro verso le Alpi
per scoprire che eravamo ancora una volta troppo in ritardo e che l'ultimo
contingente era stato seriamente provato poiché due uomini erano morti per il
mal di montagna a causa dell'altitudine. Disperati, ci dirigemmo a sud, ancora
attraverso le pianure del Piemonte e oltre il fiume Po, nella provincia di
Alessandria. Finora avevamo viaggiato con abiti civili dato che l'intenzione
era di trovare o rubare una barca e raggiungere la Sardegna. Più ci
avvicinavamo a Genova e più erano concentrate le truppe tedesche, in attesa -
senza dubbio - di uno sbarco alleato. Senza denaro e cibo divenne difficile
muoversi; anche la popolazione era molto nervosa e sotto costante minaccia dei
tedeschi che, inoltre, avevano offerto ricompense per informazioni che
conducessero alla cattura dei prigionieri di guerra evasi dai campi di
concentramento: si decise di ritornare a nord. Diventò difficile trovare cibo
e, poiché insieme eravamo troppo vistosi, ci dividemmo in coppie, sorteggiando
un nome da un cappello.
Io sorteggiai William Wrigglesworth, un membro della mia unità dell'esercito,
gli altri due erano Roger Wettenhall e Bert Ridgway. Il 24 novembre ogni coppia
andò in direzioni diverse ma, fondamentalmente, a nord. Dopo alcune settimane
Bert Ridgway si consegnò alle autorità a causa della sua salute compromessa.
Roger Wettenhall fu fermato e arrestato dalla polizia italiana il 17 gennaio
1944 e, dopo l'interrogatorio al quartiere generale fascista di Vercelli, fu
mandato in prigione a Novara dove, una settimana più tardi, fu preso dai
tedeschi e portato a Milano e poi nello stalag V 11 a Moosburg, in Germania.
Alla fine della guerra venne rimpatriato in Inghilterra e finalmente arrivò a
casa, in Australia, dove tuttora vive, in un sobborgo di Melbourne.
Io e il mio compagno continuammo a vagare nella campagna a nord di Vercelli e
ci dirigemmo gradualmente verso Domodossola, quando fummo intercettati da un
membro di una organizzazione antifascista operante nella zona di Borgosesia.
Venimmo portati in un campo fra le montagne, comandato da un patriota
antifascista, Moscatelli. In questo campo incontrammo un altro australiano, di
nome Frank Jocumsen, che avevamo conosciuto al campo Pg 57 vicino a Udine.
Frank sarebbe diventato piuttosto famoso in quella zona, per le sue imprese
contro il nemico. Io e i miei compagni lasciammo il gruppo di Moscatelli dopo
un breve soggiorno; poiché non avevamo armi, fummo molto fortunati a evitare la
cattura da parte dei fascisti mentre passammo per Borgosesia.
Qualche giorno più tardi giungemmo a Mezzana dove venimmo aiutati dalla
famiglia di Cellio e Mariettina Confienza, i quali, in quel periodo, avevano
due figli piccoli, Giacomo e Tiziano. Trascorremmo tre settimane a casa dei
Confienza, dormendo di notte e nascondendoci di giorno sulle colline vicine. Poi,
a causa dell'incrementata attività repubblicana ed alle frequenti fughe in
quella zona, si rese necessario lasciare Mezzana e vivere in collina. I rifugi
vennero costruiti in mezzo alla brughiera e fra gli alberi. L'erica venne
impiegata per ricoprire il tetto ma anche come giaciglio: un capolavoro che
orgogliosamente chiamammo "Australia house". Mezzana venne sottoposta
ad una crescente pressione dovuta alle perquisizioni dei fascisti, disperatamente
alla ricerca di due australiani che - sembrava - si trovavano sempre un passo
più avanti, grazie ai preavvisi opportuni di Cellio e Mariettina, il cui
coraggio fu incredibile e mai dimenticato. Dopo aver costruito i due rifugi,
poi eliminati, dovemmo trascorrere un certo periodo di tempo in una grotta,
fino a quando un abitante, insospettitosi, la scoprì e dovemmo, su consiglio di
altri abitanti del paese abbandonare subito anche questo rifugio. In quel
periodo si unirono a noi due soldati inglesi che erano stati catturati in
Tunisia e che erano stati nascosti in un altro paese, dove un loro compagno e
alcune persone che li avevano aiutati erano stati arrestati dai repubblicani.
Temendo per la loro salvezza chi li aiutava decise che essi avrebbero vissuto
nelle colline con noi due. Verso la fine di marzo 1944 decidemmo di
allontanarci da Mezzana verso le "colline rosse": una valle profonda
e appartata con un fiumicello fu individuata vicino a Rongio.Era l'ideale, e
così si scavò un locale sotterraneo sul lato di una collina scoscesa, camuffata
completamente con piante ed erba. La "trincea" fu chiamata
"riposo dei vagabondi" e fortunatamente non fu mai scoperta.
Cucinavamo solo di notte con un piccolo fuoco reso invisibile. Una stretta
sorveglianza fu mantenuta dall'alba al tramonto, mettendo una sentinella su un
albero della collina più alta: quando veniva avvistata una pattuglia nemica
oppure una persona sospetta ci ritiravamo nella valle e restavamo nascosti fino
a quando la via ritornava libera. I rifornimenti di cibo erano raccolti a
Mezzana ogni domenica sera, il tutto organizzato attraverso la famiglia Confienza:
per importanti ragioni di sicurezza solo poche altre gentili famiglie
partecipavano a tutto ciò; i rischi di queste famiglie erano enormi. Viaggiare
di notte lungo sentieri accidentati si rivelò molto difficile quando non c'era
la luna, era un viaggio di oltre quattro ore e si verificarono molte cadute,
per fortuna senza rompere le ossa.
Dopo il 15 marzo del 1944 provammo una grande delusione dopo che il leader
britannico Churchill aveva anticipatamente dichiarato che il mondo sarebbe
stato testimone del più grande evento della storia entro le "idi di
marzo": senza dubbio faceva riferimento all'apertura del secondo fronte
nell'Europa occidentale, che però non avvenne. Nonostante le difficoltà e la
continua minaccia di cattura e la possibile condanna a morte, mantenemmo alto
il morale, determinati a sopravvivere; avevamo anche pianificato un altro
tentativo per la Svizzera
qualora le condizioni si fossero rivelate idonee. Talvolta era necessario
abbandonare "la trincea" a causa di piogge eccezionalmente abbondanti
che bagnavano il giaciglio. Trovavamo allora rifugio nel fienile di una
cascina, in attesa che la nostra dimora asciugasse. Dopo l'apertura del secondo
fronte in Francia, nel giugno del 1944, ci unimmo alla Resistenza
antifascista-antinazista, che era diventata attiva e cresciuta di numero, in
seguito anche alla chiamata dei giovani alle armi nelle forze repubblicane,
mentre questi decisero, al contrario, di diventare partigiani. Per noi era
giunto il momento di evitare ulteriori avversità ed una eventuale cattura di
quelle persone coraggiose che così prontamente avevano assistito noi e molti
altri fuggiaschi. Io e William Wrigglesworth diventammo membri del
distaccamento "Dellatezza", comandato da Giovanni Gniatti detto
"Topolino", e adottammo rispettivamente i nomi di battaglia di Sidney
e Melbourne. Anche se alcune armi erano state lanciate col paracadute nella
zona, sfortunatamente ci vollero ancora alcune settimane prima che il
distaccamento fosse completamente armato e in grado di organizzare una
effettiva guerriglia contro il nemico fascista-nazista. In un primo tempo il
"Dellatezza" aveva solo un fucile da caccia e un revolver per
trentasei uomini, perciò era necessario il gioco del "gatto con il
topo" per diverse settimane, per evitare di essere eliminati dai
repubblicani; molte volte dovemmo ritirarci verso i pendii del monte Barone e
trascorrere gelide notti ad una quota di oltre duemila metri. I primi mesi
risultarono essere duri e difficili, era più un caso di sopravvivenza, comunque
l'esistenza stessa della Resistenza costituì una grossa preoccupazione per il
nemico. Furono necessari forti presidi repubblicani a Valle Mosso e a Cossato per
"mantenere l'ordine" e far lavorare le industrie. I partigiani
attaccarono ripetutamente le linee di approvvigionamento nemiche tenute sotto
pressione dai presidi. A poco a poco le linee nemiche di rifornimento vennero
rafforzate dall'uso di veicoli armati nelle colonne, ciononostante i partigiani
continuarono ad attaccare in ogni occasione. Intanto fu paracadutata nella zona
la British
mission per il Nord Piemonte, al comando del maggiore Mac Donald, e per la Resistenza fu possibile
il contatto radio con le forze alleate e vennero fatti più frequenti lanci di
armi, consistenti in mortai, mitragliatrici, armi automatiche leggere, bombe a
mano ed esplosivi. Gradualmente la Resistenza divenne una vera forza di
combattimento e una vera minaccia per il nemico.
Sfortunatamente i civili dovettero sopportare le rappresaglie e le atrocità
loro inflitte; le case vennero bruciate ed anche i paesi indifesi subirono il
bombardamento aereo della Luftwaffe tedesca. Molte persone vennero
imprigionate, alcune giustiziate per aver aiutato i partigiani. I soldati
nemici presero spesso degli ostaggi allineandoli al muro e minacciandoli di
morte se fossero stati attaccati dai partigiani. Questa tattica frustrò
abbastanza la Resistenza,
tuttavia non vennero risparmiati attacchi al nemico, quando possibile. Furono
organizzati scioperi nelle fabbriche per ostacolare gli approvvigionamenti al
nemico, questi scioperi ebbero però vita breve a causa delle crudeli
rappresaglie contro gli sfortunati lavoratori. Con le battaglie dell'autunno-inverno
e la mancanza del riparo degli alberi, il nemico iniziò un forte rastrellamento
nella zona, con forze di gran lunga superiori, allo scopo di eliminare i
partigiani. La 110a brigata "Fontanella" ritirò allora le
proprie forze e le disperse nella pianura del Piemonte. Il mio, con altri
distaccamenti, si diresse ad est, attraverso il fiume Sesia, poi voltò a sud
verso la pianura. Solo
di notte venivano effettuate lunghe, estenuanti marce, mentre durante il giorno
restavamo nascosti nelle cascine. Divenne difficile ottenere il cibo e così si
sperimentarono alcuni giorni di autentica fame; dove possibile, si comperava il
cibo nelle cascine. La situazione divenne estremamente critica a causa della
neve, del ghiaccio e del freddo intenso. Il distaccamento
"Dellatezza" fu spesso sotto pressione, e fronteggiò persino
l'attacco nemico trascinandosi lungo i fossi di irrigazione e tenendosi
nascosto a soli duecento metri da uomini dell'organizzazione tedesca Todt che
riparavano il ponte dell'autostrada sul Sesia, che era stato bombardato.Dopo
alcune settimane ritornammo nella nostra zona operativa per continuare gli
attacchi contro le guarnigioni; in tutto, ero stato coinvolto in tre ritirate
verso la pianura.
Finalmente gli Alleati attraversarono il Po ed il generale
Mark Clark, comandante in capo degli Alleati in Italia, chiese alla popolazione
di insorgere e disturbare la ritirata del nemico. Dopo questa richiesta la Resistenza divenne
molto aggressiva e attaccò in continuazione il nemico. I repubblicani si
arrendevano ovunque e le forze tedesche vennero completamente intrappolate. La
brigata "Fontanella" insieme alla brigata comandata da Moscatelli
occupò la città di Vercelli il 26 aprile 1945; ci fu solo una simbolica
resistenza, dato che i tedeschi si erano ritirati ad ovest e avevano innalzato
una linea lungo il canale Cavour. Le due brigate partigiane organizzarono una
marcia della vittoria il 1 maggio 1945 per Vercelli e, attraverso la folla
festosa, raggiunsero il centro città dove vennero tenuti discorsi da entrambi i
comandanti militari e politici. Appena dopo la mezzanotte del 2 maggio, unità
motorizzate della 5a Armata americana, aiutate dalla fanteria,
entrarono in Vercelli e in pochi giorni tutte le forze tedesche si arresero. Improvvisamente
la guerra in Italia era finita, la crudeltà e il male finirono, ma il dolore,
la tristezza e le cicatrici sarebbero rimaste a lungo. Nel maggio 1945 lasciai
le formazioni partigiane e divenni membro della British mission per il Piemonte
settentrionale. Dopo alcune settimane e molti tristi addii con le famiglie e
gli amici che avevano fatto così tanto per la mia sopravvivenza e quella di
William Wrigglesworth, raggiunsi l'Inghilterra con un "Liberator" da
Napoli, il 22 giugno 1945. Poi mi riunii ai miei familiari a Melbourne, l'8
settembre 1945, dopo essere stato dichiarato "morto presunto" per due
anni e dopo un'assenza di quasi cinque anni.
Ora vivo vicino a Melbourne, in
pensione dal 1983 dopo aver lavorato in un'industria automobilistica. William
Wrigglesworth, mio fedele compagno, morì il 25 maggio 1987 per un attacco
cardiaco, all'età di 70 anni, dopo aver sofferto per molti anni di malattie
cardiache.
Espressi grande ammirazione per i civili italiani che mostrarono coraggio e
resistenza durante la sofferenza della rappresaglia e i maltrattamenti causati
da un nemico spietato; il loro esempio rafforza certamente il coraggio e la
volontà di tutte le forze partigiane.
Rendo ora un omaggio particolare
a tutte le persone che rischiarono gravi pene se sorpresi ad aiutare i
prigionieri di guerra evasi, ed in particolare Cellio e Mariettina Confienza, i
quali, con grave rischio, furono gli organizzatori principali del mio
mantenimento e di quello dei miei tre compagni per cinque mesi. Cellio
Confienza che fu anche partigiano, morì per un attacco cardiaco, a Lima, il 4
gennaio 1962, all'età di soli 54 anni; sua moglie Mariettina vive ancora a Lima
con il figlio più giovane, Tiziano. Infine un ringraziamento alla famiglia
Zampese di Scoldo, che mi prese a cuore e mi trattò come un suo membro e
all'amicizia così generosamente e calorosamente offerta dalla gente, nonostante
i terribili rischi corsi, che rese possibile la mia sopravvivenza durante un
periodo molto pericoloso della mia vita.
Traduzione di Lauretta Milanaccio
Questo articolo è stato
pubblicato con il titolo di “Un australiano tra i partigiani
biellesi”in"l'impegno", a. IX, n. 1, aprile 1989 © Istituto per la
storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella
e Vercelli. . Ci si avvale della clausola che è consentito l'utilizzo solo
citando la fonte.
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