Riportiamo la Prefazione del volume 1° della Serie Prigonia.
Lo studio della
prigionia e dell’internamento come mezzo per diminuire la violenza, la violenza
bellica e rafforzare la pace e la
sicurezza, ovvero individuare la
struttura e articolazioni della
prigionia e l’internamento è un concetto che si è affermato nell’ambito della
attività della Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia a partire dal convegno di Caserta nel 1995,
che poi ha avuto sviluppo per i due anni successivi, fino a quando altri si
sono inseriti in questo filone di ricerca e praticamente non si sono avuti
ulteriori sviluppi per questo versante di studi.
Il CESVAM,
Centro Studi sul Valor Militare, ha ripreso questi studi ed ha messo nei suoi
lineamenti l’obbiettivo riportare la storia e le conseguenze della prigionia e
dell’internamento al fine di preservarne la memoria e dare, alle future
generazioni, un riferimento reale di quanto è costato, mettendo come minimo
comune multiplo il valore militare, che in moltissimi casi non è riconosciuto.
Gli scenari sia
europei che mondiali, dal 1989, con la caduta del muro di Berlino, hanno
innescato dinamiche che hanno portato il nostro Paese al centro di tensioni e conflitti
sia di medio che di alto spessore. L’Italia con le sue Forze Armate ha svolto
un ruolo non secondario nelle operazioni di “peace keeping” e “peace
renfourcement” (Libano, Mozzambico, Somalia, Albania, Bosnia, Kossovo); dopo
l’11 settembre 2001, anche in operazioni di medio-alta conflittualità in
Afganistan e in Irak. Lo scopo di queste missioni è quello di abbassare il
livello della violenza bellica, cercando di proteggere ed aiutare quello che,
la storia lo insegna, sono le prime vittime, cioè i non combattenti, i
cosidetti “civili”, che vedono la loro sicurezza, materiale e morale, messa in
pericolo. Questi interventi, quindi, costituiscono contributi essenziali al
ripristino della sicurezza e al rafforzamento della pace tra comunità, etnie e
stati. Questa azione, per essere efficaci, deve avere continui contributi,
adattamenti, studi, al fine di affrontare situazioni conflittuali sempre più
articolate e complesse. Se non si riesce a fare questo, si partecipa in in
conflitto con mezzi (intesi come concezioni, dottrina, regole di ingaggio,
intelligence, e conoscenza di amici, fiancheggiatori avversari e nemici) inadeguati. E dato che
non si può sbagliare in questa materia, le conseguenze sono pesanti. Come la
strage di Nassyrya del 2011 stà a dimostrare.
Uno dei mezzi
per avere strumenti adeguati in operazioni in Area e Fuori Area è quello di
conoscere le dinamiche della violenza, sia essa bellica o di altra natura.
Nelle parti in conflitto, la spirale della violenza spesso conduce a reazioni e
ritorzioni, spesso volute da chi compie un atto violente, che si traduce in
rappresaglie, restrizioni, limitazioni di movimento per arrivare alla
privazione della libertà in individue cosiddetti o considerati “sospetti”,
ovvero alla attuazione della prigionia militare e dell’internamento. Con questo
approccio si apre il tema, che si credeva fino al 1989 relegato solo alla
Storia, dell’internamento e della prigionia come protagonisti dei conflitti.
Due esempi: nel conflitto tra serbi croati e bosniaci nel 1991 si sono aperti,
con scientificità, i campi di concentramento, in cui si avviavano e si
detenevano i “sospetti”, con il solito corollario di violenze individuali,
crudeltà ed efferatezze; nel conflitto in Irak e in Afganistan, vi era il
“bubbone” dei Talebani detenuti a Guantanamo Bey, sospettati di essere
terroristi. Anche qui detenzione e trattamento che è tutto da verificare. In
entrambi i conflitti l’Italia è intervenuta con le sue Forze Armate per
“operazioni di pace”. E’ chiaro che l’Italia non è coinvolta direttamente in
questi fenomeni, ma è anche chiaro che non vi è a monte alcuna conoscenza
approfondita su come affrontare con linearità e chiarezza tali fenomeni. Non si
vorrebbe che, in un futuro più o meno lontano i nostri soldati impegnati a riportare
la sicurezza e la pace, fossero invischiati in storie di “detenzione di
sospetti” ed altro, con il rischio di essere accusati di crimini e di essere
dalla parte del carnefice. Avvisaglie di questi pericoli, che vanno contro
tutte le buone volontà, si sono avuti nella operazione in Somalia.
Occorre quindi
uno studio a vasto raggio che permetta di affrontare queste operazioni, questi
impegni con mezzi giuridici moderni, con una culture tale che permetta di
evitare errori, e scivoloni, che permetta di esercitare la violenza, in quando
non si può fare a meno in circostanze come quelle dell’impiego in un conflitto,
nell’ambito non solo della legge nazionale e internazionale, ma anche nei
canoni della legge della coscienza e delle genti. E questo non è facile. Una
problematica questa che è passata completamente in secondo piano dopo l’”anno
terribilis” segnato dalla pandemia mondiale del Covid-19, ma che è sempre
presente.
In questo quadro
lo studio della prigionia, che è un fenomeno direttamente conseguente ad ogni
conflitto, di qualsiasi natura, e dell’internamento, anche esso collegato,
riferito a popolazioni civili, può aiutare a svolgere le missioni di pace
nell’ambito della norma e contribuire al loro successo.
Il CESVAM
intraprende con questo progetto affrontare il tema del combattente disarmato,
ovvero della prigionia e dell’internamento. Ovvero, attraverso lo studio del
passato, comprendere come prigionia ed internamento debbono essere esercitati e
come attraverso essi si possa abbassare la violenza, bellica e non, in tutte le sue forme..
Noi crediamo che
in questo momento difficile per tutto il mondo, segnato dalla pandemia, il
miglior modo di rendere omaggio a chi, nelle varie missioni dipace, ha dato la
vita per la pace e la sicurezza di altri popoli, sia quello che contribuire a
capire e a cercare di limitare o attenuare i fenomeni di violenza annessi a
conflitti, nel ricordo di chi prima di noi subì privazioni, umiliazioni,
sofferenze dietro un reticolato, in nome di una idea, di un valore, di un
domani migliore.
Il
Collegio dei Redattori
Rivista QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO
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