Il
Trattamento dei prigionieri di guerra da parte Etiope
Ascari mutilati della mano sinistra e del piede destro da parte degli Etiopi
I primi prigionieri, stanchi e
affamati, giungono a Addis Abeba il 22 maggio, dopo una marcia estenuante a
piedi di un migliaio di chilometri, durata due mesi e con una cinquantina di
decessi; altri prigionieri arriveranno a giugno ed altri ancora confluiranno ad
Harrar a fine luglio.
In base alle dichiarazioni dei
prigionieri vi furono delle versioni sul trattamento, unanime fu il confermare
che la marcia dal Tigrè allo Scioa fu terribile Dalle ricerche
di Angelo Del Boca e di Giorgio Rochat risulta che i prigionieri italiani, sovente
in quanto cristiani, furono trattati, vestiti e alimentati generosamente dal
Negus, Ras, clero, soldati e, pietosamente, dalla popolazione indigena, nei
limiti delle possibilità. Non pochi italiani addestrarono artigiani locali e si
legarono anche sentimentalmente a donne abissine, con scene strazianti
all’addio dei prigionieri. In un secondo tempo i prigionieri si amalgamarono
bene con la popolazione, disponendo, specie gli ufficiali, di talleri, servi,
cavalli e svaghi e spesso invitati alla tavola dal Negus! Per contro non
mancarono abusi degli italiani ai danni degli ospitanti, furti, imbrogli, risse
anche con coltelli… dimentichi di chi aveva persa la guerra!
Tra
luglio e ottobre 1896, i prigionieri sono assistiti dalla Missione Sanitaria Russa,poi giungono coi
missionari i primi soccorsi in vestiario, scatolame e denaro raccolti da un Comitato Civile di nobildonne costituitosi a Roma, in mancanza di
un’assistenza diretta dello Stato italiano belligerante. Poi, dopo la firma della
pace, il 26 ottobre giungono i primi convogli della Croce Rossa Italiana e i sussidi portati dal
Nerazzini, negoziatore della pace. Con la pace, i prigionieri sono ospiti liberi e con le tasche piene di
talleri non hanno davvero di che lamentarsi,
Ricorda
il marchese Salvago Raggi, Governatore dell’Eritrea nel 1907:
“Si lavorò a
svegliare la pietà del pubblico italiano sulla sorte dei prigionieri, i quali
non vennero sistematicamente maltrattati. Passati i primi momenti dopo la
battaglia e i disagi della marcia dal Tigrè allo Scioa, erano assai meglio
trattati di quanto non lo siano stati i prigionieri di guerra (1915-18,
n.d.r.) in Germania; parecchi stavano
meglio che non a casa loro “.
Con il trattato di Pace, quindi Menelik
poteva rilasciare i prigionieri. Infatti si ebbe una apposita convenzione Il loro
rimpatrio fu assicurato con l’accordo dell’ottobre 1896 che riconosceva il
confine dell’Eritrea al fiume Belesa e Maleb, l’indipendenza dell’Abissinia da
ogni ingerenza italiana rivendicata da noi con il Trattato di Uccioli del
maggio 1889. Inoltre veniva pagata al Negus una somma quale rimborso per le
spese di mantenimento dei prigionieri. Il rimpatrio avveniva attraverso il
porto britannico di Zeila l’arrivo in questo porto per l’imbarco, avvenne tra
la disattenzione delle Autorità e della Colonia bianca che della sconfitta,
delle sue cause e conseguenze preferivano non parlare e nemmeno ricordare. Fu il profilo di questo rimpatrio, assunto
fin dai primi momenti, che è più doloroso della stessa prigionia. Quanto sopra, innanzitutto, perché al fatto
dell’essere caduto prigioniero era attribuito nell’ambiente militare e
nell’opinione pubblica un significato molto negativo nei riguardi del
comportamento dell’individuo e del reparto, che sussisterà ancora nel corso
della I Guerra Mondiale, particolarmente in certi ambienti. Ciò anche in
funzione di una esigenza ritenuta necessaria per assicurare un comportamento
deciso e valoroso degli uomini e dei reparti nel combattimento. Dopo le accuse
mosse da Baratieri di codardia dei suoi soldati, anche Di Rudinì è poco tenero
coi prigionieri, preziosi ostaggi di Menelik nelle trattative di pace: “Se Menelik voleva una indennità di guerra
doveva venire a prendersela di viva forza in Roma /…/ Poco importa se il mio
rifiuto farà soffrire e morire i prigionieri. Il mio dovere è di rifiutare
qualsiasi indennità, il dovere loro è di morire per il decoro della patria.
Potrò rimborsare le spese effettivamente sostenute per il loro mantenimento, ma
non di più…”
“Era meglio
foste morti! “:
è il succo della prima accoglienza delle autorità e degli italiani ai
prigionieri di Adua, sorvolando sull’impreparazione militare e psicologica di
quella truppa e sugli errori e sottovalutazioni del nemico da parte del gen.
Baratieri e del governo Crispi!
Come ulteriore umiliazione,come detto,
che non fece che inasprire la vicenda presso le autorità italiane, il
Negus “donò” 50 prigionieri militari italiani, quasi fossero cose o schiavi,
allo zar Nicola II per la sua incoronazione, il quale poi li rigirò all’Italia.
Ancor di più fu contrariato il principe ereditario Vittorio Emanuele, che
proprio alla Corte Russa aveva trovato la sua sposa, Elena del Montenegro e che
per ovvie ragioni ci teneva a che il prestigio suo e dell’Italia non decadesse
più di tanto.
Zaghi, C “I
Russi in Etiopia” Guida, Napoli, 1972.