Nella campagna contro la Grecia combattuta in Albania dal 28 ottobre 1940 al 4 aprile 1941 si ebbero 18000 Caduti e 25000 dispersi su un totale di 270000 effettivi con una percentuale del 16%.
In media, secondo dati statistici riferibili anche a conflitti successivi alla Seconda Guerra Mondiale (ad esempio la guerra di Corea del 1951) è preventivabile una perdita, per il personale, non superiore al 10/15% delle forze impiegate.
L'ARMIR e prima il C.S.I.R., nel periodo della loro permanenza in Russia dal agosto 1941 all’11 dicembre 1942, ebbero 279 ufficiali e 2337 sottufficiali e soldati Caduti e 70 ufficiali e 2338 sottufficiali e soldati dispersi. Per i prigionieri siamo sull’ordine delle centinaia di unità. Queste perdite sono da considerarsi "normali" in cicli operativi di guerra.
In ogni caso, al momento in cui era stato acquisito, era un dato quanto mai terribile. Anche nell'Italia del 1943, in piena guerra, rappresentava una cifra di perdite insostenibile ed inaccettabile se non accompagnata da spiegazioni e motivazioni consistenti. Dato così, senza precise giustificazioni non sarebbe stato accettato dalla opinione pubblica, anche quella addomesticata dal regime fascista. Nuda e cruda questa cifra di perdite significava una sconfitta militare di proporzioni enormi, la più grande subita dall'Esercito Italiano. Sicuramente avrebbe innescato i perché e i percome di come tale sconfitta si era maturata. Il governo di allora, Mussolini in testa, non ritenne di dover propagandare tale cifra ed ammettere pubblicamente la tragica realtà. Preferì scegliere la via del silenzio. Non per altro i reduci del 1943 dalla Russia furono accolti in Italia quasi di nascosto, affinché di quando accaduto in terra Russa non venisse divulgato.[1]
Oltre a non essere divulgato il dramma italiano in terra sovietica non fu sufficientemente preso in considerazione in sede ufficiale e non, con il raccogliere ogni elemento utile per comprendere quello che era successo. Dall'aprile al luglio 1943[2] la situazione era cosi pressante e grave che non si prestò sufficiente attenzione da parte delle autorità responsabile alla raccolta di documentazione e testimonianze. Forse mancò anche il tempo. Il precipitare della situazione generale con la caduta del fascismo il 25 luglio, i 45 giorni del Governo Badoglio e l'armistizio dell'8 settembre 1943 aggravarono ulteriormente la situazione che fu definitivamente compromessa nel biennio 1943-1945, quando cause di forza maggiore ulteriori, facilmente comprensibili, impedirono di prendere in considerazione gli eventi del dicembre-marzo 1943 in terra russa. Sarà solo con la fine della guerra e con la volontà delle innumerevoli famiglie che volevano sapere la sorte dei loro congiunti inviati a combattere in Russia e il ritorno dei prigionieri che il problema si pose all'attenzione generale.
Ne il Governo del tempo, quindi, ne il Ministero della Guerra nel 1943 pubblicarono alcuna cifra ufficiale delle perdite dell’ARMIR, anche perché si voleva evitare di sottolineare le dimensioni della tragedia e della disfatta militare. Si era poi in piena crisi del regime: la sconfitta di El Alamein la ritirata in Africa settentrionale preludeva alla resa del maggio 1943, e quindi all’invasione del territorio metropolitano. Non vi era alcuna propensione ad andare ad approfondire dati e situazioni che avrebbero peggiorato ancor di più un quadro generale già pesante. Sopraggiunsero gli eventi di luglio e settembre 1943 e l’invasione del territorio italiano e quindi il problema fu rinviato alla fine della guerra.
Con il rientro dei soldati dalle altre prigionie, nel 1945-1946, si pose mano anche alle perdite della campagna di Russia. Si accettarono i dati già individuati a Gomel, frutto non di sistematiche ricerche ma presi sul tamburo, ottenuti per differenza tra gli uomini alle armi all’inizio della ritirata, e quelli sopravvissuti.
La cifra, non fu sottoposta ad alcuna verifica o integrazione sulla base di eventuali dati raccolti; la cifra individuata a Gomel di 84.830 uomini persi nella ritirata di Russia, rimase la cifra ufficiale delle Perdite in Russia, che come si è detto per decenni fu considerata quella vera quasi fino ad oggi.
Eppure nel 1946, oltre ai Reduci, altre fonti di notizie sulle nostre perdite erano disponibili, anche di provenienza dalla Unione Sovietica.
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[1]E’ ormai noto come furono accolti i superstiti della Campagna di Russia al Brennero, inizio di quella lunga incomprensione e frattura tra chi tornava dalla Russia e la pubblica opinione in Italia.
Scrive Giulio Tedeschi:
“Chiudere i vetri dei finestrini! Chiudere i vetri dei finestrini – gridava il personale passando dinanzi alle vetture e avvicinandosi agli sportelli dava un secco giro di chiave di servizio e li sbarrava.
Nessuno esce più! Alle stazioni è vietato affacciarsi! – ingiungevano le voci imperiose; - chiudere i vetri dei finestrini!
Che roba è questa? Si cominciò a gridare all’interno dei vagoni
Non siamo bestie!
Aprite! Aprite! Urlavano ormai gli alpini riabbassando i vetri e scuotendo in vano le maniglie.
Siamo in Italia!
Siamo gli alpini….!Siamo gli Alpini! Gridavano. Sulla pensilina, dinanzi al vagone della ventisei stava immobile un ferroviere, con le mani nella tasca dei pantaloni
La popolazione non vi deve vedere: è l’ordine, spiegò seccamente al più vicino grappolo d’uomini che si affannavano sbracciandoci dal finestrino
Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, càvalo vestio da òmo, gli griò disperato Scuderia mentre il treno già si muoveva
Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? Urlò allora ia rinchiusi il ferroviere: vi accorgete sì o no Cristo che fate schifo?
Cfr. Tedeschi G., Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1995
[2] Per questa situazione vds., tra gli altri, la prima parte del volume di Ruggero Zangrandi, 25 Luglio – 8 Settembre 1943, Milano, Feltrinelli, 1964
Centomila gavette di ghiaccio è di Giulio Bedeschi, non Tedeschi....
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